Garavini cerca Monsù Desiderio pittore di architetture fantastiche

Il romanzo di Fausta Garavini in cinquina al Campiello, Le vite di Munsù Desiderio (Bompiani, pagine 324, euro 22,00), è, insieme, il libro di una narratrice ma anche di una studiosa (l'autrice è un'insigne francesista, apprezzata traduttrice di Montaigne), basato com'è su documenti e ricerche d'archivio.
L'opera indaga l’affascinante mistero che circonda François de Nomé, detto Monsù Desiderio, uno straordinario pittore del Seicento. Ben poco si sa di lui: nato a Metz, in Lorena, visse in Italia, tra Roma e Napoli. Dipinse architetture fantastiche squassate da silenziosi cataclismi, abitate da statue spettrali che sembrano muoversi come figure viventi. Scenari da incubo, sogni pietrificati, il gran teatro della morte e della notte.
Professoressa Garavini, da dove è nato il suo interesse per François de Nomé?
«Vidi un suo quadro a una mostra del Seicento francese, a Montpellier, nel 1993. Era "Les Enfers" e veniva dal Museo di Besançon. Mi incuriosì molto e cominciai a cercare altri suoi dipinti e notizie sul pittore. Sono circa vent'anni che vivo in compagnia di Nomé, mi ha dato del filo da torcere».
In cosa direbbe che consiste la modernità del suo lavoro artistico, non a caso amato da Breton e dai Surrealisti?
«Se per moderno si intende qualcosa che ci parla ancora oggi, François de Nomé è indubbiamente moderno. Dipinge architetture in cui si mescolano tutti gli stili, classico, gotico, barocco, e queste architetture stanno crollando. Non sono rovine, come se ne trovano tante nella storia della pittura, ma crolli in atto, fermi-immagine su edifici che vengono giù a pezzi: la catastrofe non è già avvenuta, si sta svolgendo sotto i nostri occhi, in scenari da incubo. Attraverso crolli e cataclismi, questi quadri parlano di una storia d'incessante dissoluzione, dell'inconsistenza delle pretese umane a durare, dell'eternizzazione rovinosa della storia dove non c'è misericordia né perdono, raffigurano il dramma della nostra condizione. Tutto quello che l'uomo costruisce attraverso le epoche è destinato a disfarsi».
E in cosa risiede la componente di mistero che avvolge la sua figura e la sua produzione?
«È un caso singolare di un pittore che ha lasciato molti quadri, ma della cui biografia non si sa quasi nulla, se non che è nato a Metz, in Lorena, è venuto a Roma da ragazzino e poi si è trasferito a Napoli dove ha sposato Isabella Croys, figlia di un pittore fiammingo di cui Nomé ha probabilmente ereditato la bottega. Inoltre per secoli, fino al 1956, è stato confuso con un altro pittore, Didier Barra, sotto il nome di Monsù Desiderio, che in pratica era appunto un marchio di bottega. Ci sono, nei quadri di Nomé, motivi bizzarri e inquietanti, per esempio il pullulare, fra gli ornati architettonici, di tori o buoi, per lo più condotti al sacrificio, che appaiono con insistenza maniacale sulle cornici, nei rilievi e nei gruppi statuari a decorazione degli edifici rovinanti. Un altro elemento egualmente perturbante sono le statue viventi. Pressappoco su tutte le architetture ci sono delle statue: sulle cornici, sugli architravi, negli intercolunni. E sono statue fantomatiche, quasi fluorescenti, che emergono spettrali dai fondi scuri e che soprattutto non hanno pose e rigidità sculturali, ma accennano movenze e guizzi talvolta addirittura scomposti».
Nel suo libro come ha inteso legare le informazioni da lei raccolte e i dati approfonditi come studiosa alla trama narrativa di un romanzo?
«Ho voluto provare a ricostruire la vita di Nomé, di cui non si sa praticamente nulla, a partire dai suoi quadri. Quindi la sua vita immaginaria, quello che aveva in testa, e al tempo stesso la sua vita quotidiana, poiché certamente traeva ispirazione da quello che aveva intorno: si dipinge, e si scrive, con quello che si vive. Crolli e distruzioni riflettono la visione che si poteva avere in quegli anni di Roma e di Napoli, le due città dove Nomé ha vissuto, trasformate in cantieri permanenti, in disequilibrio fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, fra vestigia classiche devastate, monumenti gotici in via di ammodernamenti controriformistici, demolizioni per la costruzione di nuove fabbriche religiose».
E poi ci sono gli influssi politici...
«Questo mondo secentesco è anche attraversato da fermenti di rivolta contro il malgoverno pontificio e spagnolo, alimentati dal pensiero magico-religioso-politico di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella: Nomé arriva a Roma poco dopo il rogo di Bruno, è a Napoli mentre Campanella è imprigionato a Castel dell'Ovo dove però tiene insegnamento, e Giambattista Della Porta, l'autore della Magia naturale, è ancora vivo e vegeto. Le loro teorie filtrano dai circoli ristretti degli adepti e lasciano nell'aria scie di misteriosi vaticini. Nomé respira quest'aria».
Come sta vivendo l'attesa del verdetto della giuria popolare del Campiello?
«Sono curiosa di vedere come andrà a finire, come la mia scrittura sarà giudicata dal voto della giuria popolare che è sempre una sorpresa. Questo premio è importante proprio perché è indipendente e trasparente».
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