Frida Kahlo e Diego Rivera, i colori della passione
Il volto di Frida Kahlo (1907-1954) è una delle icone più conturbanti del '900. Da quando venne riscoperta alla fine degli anni '70, con una grande mostra dedicatale nella nativa Città del Messico, i suoi quadri sono stati oggetto di retrospettive in tutto il mondo, raggiungendo quotazioni stellari. Nel corso degli ultimi anni, una serie di biografie (in particolare “Frida” di Hayden Herrera riedita nel 2016 da Neri Pozza) hanno contributo ad alimentare la leggenda d'una donna straordinaria, dalla bellezza mostruosa e sensualissima, carica d'una voglia di vivere e d'amare che neanche l'invalidità lasciatale da una poliomielite contratta a sei anni e dal terribile incidente stradale occorsole a diciotto anni erano riusciti a mitigare o a frenare.
Il volto inquietante di Frida Kahlo, colto in bellissimi foto-ritratti e nei suoi surreali autoritratti, seguita ancora oggi a sollecitare il nostro sguardo, a chiedere, a pretendere quasi, d'essere guardato. Ed eccolo su centinaia di gadget e poster che riproducono la sua immagine, su abiti e gioielli che ne ricalcano lo stile unico e esaltante. Frida aveva inquisitivi occhi sporgenti, foltissime sopracciglia e un'imbarazzante ombra di peluria sul labbro superiore, ma tutto ciò che poteva essere un handicap lei lo trasformava in uno sfoggio grandioso col suo peculiare gusto per il décor: sfoggiava gonne da indigena di Tehuantepec i cui orli racchiudevano messaggi erotici ricamati da lei stessa, scialli rebozos e huipiles colorati, corpetti e camicette. Indossava monili e accessori: perle precolombiane, collane guatemalteche o floreali. Si decorava i capelli con bouganville, rose e orchidee, li intrecciava con nastri o fili di lana, si colorava le labbra e le unghie di rosso, portava anelli vistosi e dai lobi pendevano grandi orecchini elaborati.
Frida era sempre perfetta, anche quando passava mesi al letto, ingessata o ingabbiata, anche quando piangeva per gli atroci dolori che la perseguitarono durante la sua breve esistenza o per le pene d'amore causatele dall'uomo della sua vita: il pittore Diego Rivera, il genio dei muralisti messicani che aveva il doppio dei suoi anni, il triplo del suo peso e una reputazione di orco e di seduttore compulsivo. Il loro incontro, la fede nella rivoluzione, i viaggi negli Usa e a Parigi, ma anche i loro tradimenti e abbandoni e le loro plateali riappacificazioni, sono ora rievocati dalla scrittrice francese Claire Berest nel romanzo ”Nulla è nero” proposto sempre da Neri Pozza per la traduzione di Roberto Boi (pagg. 224, euro 18), vincitore del Gran Prix des Lectrices Elle 2020, in libreria da domani.
La narrazione si dipana a partire dalle feste organizzate dalla fotografa friulana Tina Modotti a cui partecipano la giovanissima Frida e l'ingombrante Diego e dove nasce la loro tumultuosa e turbolenta passione, qualcosa di gigantesco e fuori dall'ordinario, una storia d'amore vivida e intensa come i colori dei loro dipinti.
Claire Berest, classe 1982, figlia d'arte (è la pronipote di Francis Picabia) ricorre a una voce narrante impersonale che - in una sorta di loop onirico - ricorda i ricordi di Frida. Il presente storico rende più attuale ogni follia, avventura, gioia o dolore. I singoli capitoli sono caratterizzati da un colore, tutti toni dei blu del cielo e della loro casa a Coyoacan alla periferia meridionale di Città del Messico, del rosso delle ferite di Frida, dei suoi aborti, dei suoi abiti fiammeggianti, del giallo del sole e della rabbia ma anche delle provocazioni erotiche, fino al nero delle pupille di Frida, aperte oltre la morte. Sì perché tutta l'esistenza di Frida Kahlo, come dimostrano i suoi inquietanti dipinti, è stata una sfida alla morte e al prematuro disfacimento di quel fragile corpo che in così tanti hanno amato. —
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