Francesco Cito «Ho scoperto i punk ma Epoca li snobbò»

Apre oggi alla Piccola Fenice la mostra del grande reporter Incontri e workshop nel Festival del Circolo Fincantieri Wärtsilä
Di Benedetta Moro

di BENEDETTA MORO

«Non è che si scialasse, però un buon lavoro fotografico mi veniva pagato 1500-2000 sterline». Era il suo primo reportage per il "Sunday Times magazine". Avrebbe poi scavalcato i confini dell'Afghanistan negli anni '80 tra i primi fotografi italiani, andando successivamente anche a disturbare i contrabbandieri di sigarette, la mafia. E poi la guerra in Libano, la Palestina, la Bosnia, ma si è occupato anche di ritratti sociali come i matrimoni napoletani e la pesca dei tonni in Sicilia, vincendo diversi premi internazionali e pubblicando i propri reportage su Epoca, l'Europeo, L'Illustrazione Italiana, Oggi, Gente, Panorama, L'Espresso, Il Venerdì di Repubblica, Sette-Corriere della Sera, D donna, Io Donna, Stern, Frankfurten Allegmain Mag, Die Zeit magazine, The Observer magazine, The Indipendent magazine, Paris Match, Figaro magazine, Life e tanti altri.

Francesco Cito, fra i più importanti fotoreporter italiani, si racconta al suo arrivo a Trieste in occasione della mostra fotografica "Sulla terra chiamata Palestina 1985-2005" che oggi si inaugura alla Piccola Fenice di Trieste (via San Francesco, 5) per il 14° Triestephotofestival organizzato dal Circolo Fincantieri-Wärtsilä (Sezione foto), e che raccoglie diversi scatti da lui realizzati durante i suoi numerosi viaggi, cui seguirà il suo intervento "L'istinto del fatto".

Insieme a Cito apriranno le mostre fotografiche di Sara Munari, Ilaria Abbiento, Gianluca Abblasio, Lorenzo Zoppolato, Aleksej Myakishev, Giuseppe, Carlo, Wanda e Marion Wulz. Sabato e domenica invece Cito terrà il workshop "L'idea dietro la foto". Tra sabato e domenica verranno svolte la lettura di portfolio da parte di fotografi amatoriali e professionisti con un premio finale della giuria e tre conferenze tenute dalla foto-editor Maria Teresa Cerretelli, dal docente Augusto Pieroni e dal gallerista Mario Peliti.

La prima macchina fotografica Cito l'ha presa realmente in mano verso i 24 anni, anche se a 14 anni gliene fu regalata una. «L'avevo scelta perché mi piaceva la forma» ha detto. E quel mezzo rullo che usò, andò perso. Se qualcuno oggi lo trovasse, troverebbe un tesoro. E porterebbe alla luce i primi scatti di Francesco Cito, di cui nemmeno lui ricorda il soggetto.

Quando ha iniziato a fotografare davvero?

«Sono partito per l'Inghilterra proprio con l'intento di fare fotografia, convinto che dovessi frequentare una scuola. Avevo letto che una delle migliori era lì. Poi, per una serie di motivi, non l’ho frequentata, sono un autodidatta tout court. Però ero partito dall'Italia con il miraggio che anch'io un giorno avrei pubblicato con Epoca. Ma il primo approccio con questo magazine non fu tra i migliori, rimasi deluso».

Perché?

«Avevo proposto una mia storia fatta in Inghilterra e non me l'hanno nemmeno considerata. Era un lavoro sui punk che nascevano come fenomeno sociale nell'Inghilterra della fine anni '70, un lavoro per cui forse sono stato il primo. Decisi di venire in Italia per proporlo a Epoca, ma nemmeno lo guardarono. Poi lo stesso giorno, attraverso amici, arrivai all'Europeo e di quella storia ne fecero dieci pagine e la copertina. Solite cose che succedono in Italia».

Un personale riscatto che poi si è anche moltiplicato... «Sono rientrato in Italia nell'83, passavo alla Mondadori per salutare un mio amico che lavorava a Panorama, e lì, anche se avevo già iniziato a lavorare con il Sunday Times magazine ed ero diventato famoso per questo, l'allora caposervizio di Epoca mi disse: "Allora Cito, ti mandiamo in Libano". E io risposi: "In Libano un corno!". Poi fui preso dal canto delle sirene, fui presentato all'allora direttore di Epoca, Carlo Gregoretti, andai da solo, e da lì ho cominciato. Però lavoravo già con gli altri, Epoca ormai non era più un miraggio».

Qual è stato il suo primo reportage pubblicato?

«Un reportage sui minatori, perché fino ad allora avevo lavorato esclusivamente per un settimanale inglese, "Radio Guide", dal '75, che si occupava di musica leggera in Inghilterra. Ho imparato a fotografare in termini giornalistici. Fino ad allora facevo foto come qualsiasi amatore».

Come ha iniziato a collaborare con il Sunday Times magazine?

«Decisi di fare un salto di qualità, barando naturalmente, perché non avevo fatto quasi nulla fino ad allora. Mi presentai al Sunday Times vantando collaborazioni mai avvenute e poi, parlando del più e del meno, mi proposero di fare un reportage a Napoli sul contrabbando di sigarette, perché avevano letto sul Telegraph che i contrabbandieri napoletani erano in sciopero, cosa anacronistica».

Come ha fatto a portare a termine quest'operazione delicata?

«A furia di prendere 25 caffè al giorno nei bar, parla con uno e con l'altro, i contrabbandieri mi accettarono. Però ci ho impiegato molto tempo, all'inizio non volevano, tanto che mi hanno fatto un'offerta in denaro purchè mi togliessi dalle scatole. Li ho sensibilizzati sull'orgoglio: io non avrei accettato la somma, anche se sarebbe stata maggiore del mio compenso. Però dissi, io ho un orgoglio e un'ambizione. Mi misero una serie di paletti ma alla fine furono superati, si creò un'amicizia e un'apertura mentale per cui ero libero di fare come mi pareva. Di notte, quando c'erano gli scarichi, non potevo usare il flash altrimenti si poteva vedere la nave, a 70-80 miglia dalle acque territoriali. Non potendo fotografare davo una mano a scaricare le sigarette, quindi ho fatto anche il contrabbandiere!».

Il primo reportage di guerra?

«In Afghanistan con l'invasione sovietica nell'80. Volevo mettermi in gioco per capire se sarei riuscito a fronteggiare tematiche mai viste allora. Poi guerra civile in Libano e tanti altri».

E la Palestina?

«È uno dei miei soggetti più seguiti iniziando nell'83, e anche oggi, nonostante si sia perso l'interesse anche da parte dei media. Fino a quattro anni fa ci andavo tre volte l'anno per riprendere il conflitto. La realtà è molto diversa da come è raccontata. Sono rimasto molto deluso della concezione politica, sociale e umana di Israele. Per me i palestinesi sono le vittime, a prescindere da come si comportano, compresa la storia dei kamikaze. Sono stati anche indotti e condotti a diventare quelli che sono».

Ha mai pensato a un reportage sui terroristi dell'Isis? Da dove inizierebbe?

«Dalla Siria, con buoni contatti avrei potuto fare qualcosa. Una mezza idea l'avevo, avrei voluto, però la situazione è che oggi la stampa e i media hanno smesso di investire. L’avevo proposto alla Mondadori, perché avevo vinto un premio che ancora non mi è stato dato. Mi chiesero cosa volevo fare e io volevo riprendere l'Isis, ma mi risposero "abbiamo giusto i soldi per l'autobus". Una volta investivo io stesso, convinto che una volta tornato in Italia avrei venduto i miei scatti, ma ora è impossibile. L'ultimo reportage è stato sei anni fa per l'alluvione in Veneto».

Perché secondo lei sono cambiate le cose?

«Perché non ci sono più gli editori, ma grossi gruppi che seguono i loro interessi».

Oggi quindi come si svolge il suo lavoro?

«Faccio lavori più commerciali e più remunerativi, come quello per una grossa casa vinicola al momento».

È la prima volta a Trieste?

«Ho già esposto due volte qui. E negli anni '90 sono stato inviato anche da Epoca a fare un lavoro a Trieste su un autista della società di trasporti urbani che si era comprato una Ferrari. Andava a scuola con Mario Andretti, famoso pilota di Formula Uno emigrato in America. Il fatto non era che si era comprato la Ferrari, ma che aveva minacce anonime continue, gente che gli dava del ladro e dello stronzo. Di solito le classi meno abbienti accettano molto volentieri che un ricco possa comprarsi una Ferrari, ma non che un operaio lo faccia».

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