Fogar e Mancini, due uomini vanno alla deriva

Giovedì 5 e venerdì 6 aprile, al Miela, “74 giorni sospesi” con Ivan Zerbinati e Alessandro Mizzi rievoca l’avventura del ’78 finita in tragedia
La Notte Blu dei Teatri 2017 © Fabrizio Caperchi Photography / La Nouvelle Vague Magazine
La Notte Blu dei Teatri 2017 © Fabrizio Caperchi Photography / La Nouvelle Vague Magazine

TRIESTE Due uomini alla deriva. Deriva fisica, per l'affondamento improvviso del loro natante in pieno Atlantico. Deriva psicologica, prostrati nella mente da privazioni e angoscia in quella che diventerà lotta quotidiana per la sopravvivenza. Succedeva 40 anni esatti fa: oggi il racconto di quei momenti drammatici eppure unici nel risvegliare senso d'unione e fratellanza rivive in “74 giorni sospesi. Il naufragio di Ambrogio Fogar e Mauro Mancini”: lo spettacolo, nuova produzione Bonawentura, in scena stasera, giovedì 5 aprile, e domani, venerdì 6 aprile, alle 20.30 al Teatro Miela, è la naturale evoluzione della lettura scenica fatta alla Barcolana dello scorso anno. Più coinvolgente ancora, sul palcoscenico, con Ivan Zerbinati nei panni di Ambrogio Fogar il temerario e Alessandro Mizzi in quelli di Mauro Mancini, il giornalista della “Nazione” che lo seguì, innamorato com'era delle lettere e del mare. E poi lei, la Zattera, unico elemento a campeggiare nello spazio scenico, sospesa come i destini dei suoi due abitanti.

La Zattera” è anche il testo da cui è partito il regista milanese Massimo Navone, che con Luca Rodella ha elaborato il racconto originale scritto da Fogar unendovi anche testimonianze di Mancini. «Facevamo ricerca su personaggi milanesi dalle vite particolari e avventurose – spiega – e da appassionato di vela quale sono non potevo scordarmi quest'avventura finita in tragedia». Dopo due mesi e mezzo e mezzo di naufragio, infatti, si compiva un destino più beffardo che mai: ripescati il 2 aprile '78 da un mercantile greco, Mancini muore due giorni dopo per un virus contratto proprio sulla nave della salvezza. “74 giorni sospesi”, però, si ferma prima, con le vicissitudini accadute in mare aperto e il delinearsi dei caratteri dei due protagonisti, dove non mancano accenti anche ironici. «Ciò che più colpisce – continua il regista - è che si tratta di due personaggi diversissimi, con caratteri e obbiettivi diametralmente opposti, oltre a una differenza d'età di 17 anni. Fogar uomo d'azione, energico, spirito di mettersi in gioco con la Natura nel modo meno mediato possibile, tra i primi a lanciare sfide anche mediatiche. Conosceva Mancini superficialmente: uomo di cultura, Mauro era più riflessivo, morbido e sornione e quella sua prima navigata in oceano voleva essere un modo anche per approfondire il legame con l'esploratore».

«Quello che mi ha conquistato subito è che ci sono ingredienti teatralmente molto forti: Mauro e Ambrogio sono una sorta di Vladimiro e Estragone in “Aspettando Godot”, sospesi nel vuoto tra l'abisso e il cielo. Riflettono sul senso della vita, della morte, dell'amicizia, temi amplificati in una condizione estrema d'isolamento che consente di andare a fondo con se stessi, cosa che difficilmente nella vita normale uno riesce a fare. Costretti in uno spazio limitato con intorno l'infinito: c'è questa emblematicità, di come inizieranno a conoscersi specchiandosi l'uno nell'altro». Colpirà sicuramente, in un monologo di Zerbinati-Fogar, sentire citare Barcola, Isola, Pirano, Muggia: ma i nonni di Fogar avevano realmente la casa a Barcola e un suo sogno rievoca proprio la casa dove trascorreva le vacanze, descrivendo il golfo triestino e rendendone una poetica descrizione nel ricordare le sue estati spensierate di bambino.
 

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