Ferruccio De Bortoli: «I premier pensano a un potere eterno»

L’ex direttore di Corsera sarà giovedì a Trieste: incontro e premio nell’ambito del “Luchetta”
Ferruccio De Bortoli
Ferruccio De Bortoli

Al contrario di quel che si potrebbe pensare, a volte è facile intervistare un giornalista. Giovedì l'ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli riceverà, nell'ambito del premio Luchetta, il riconoscimento Friuladria "Testimoni della storia 2015". In vista dell'arrivo sul Golfo, attinge generosamente ai suoi ricordi, disegnando decenni di incontri e rapporti con i protagonisti della letteratura, del giornalismo, della politica.

De Bortoli, qual è il suo legame con Trieste?

«Le mie origini sono a Nordest, mio padre è nato a Feltre, vicino a Belluno, e i rapporti sono stati sempre frequenti fino al mio ultimo giorno da direttore del Corriere. Il mio grande amico Claudio Magris mi ha telefonato chiedendomi di venirlo a prendere alla stazione di Milano. Sono arrivato al binario e lui è sceso dal treno portando non senza sforzo un pacco voluminoso. Dopo averlo faticosamente disimballato, ha esclamato: "Ecco la marca triestina". Era una stampa del '700 comprata da un antiquario della sua città. È una delle belle cose che porto con me di quel giorno».

Ora lei è presidente di Longanesi. Ci sono autori triestini che apprezza, oltre a Magris?

«Di recente ho riletto "La coscienza di Zeno" e qualche sera fa mi sono emozionato, durante una serata alla Milanesiana, quando è stata letta la poesia di Saba "Amai". Un altro autore che ho avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare è Tomizza, senz'altro uno di quelli che ho amato di più».

Riceverà il premio "testimone della Storia". Da direttore del Corriere che rapporti ha avuto con presidenti come Prodi, Berlusconi e Renzi?

«Conflittuali con tutti e tre. Il fatto è che il potere trasforma le persone. Prodi l'ho conosciuto prima che diventasse Prodi, e quello di palazzo Chigi era molto diverso dal professore e collaboratore del Corriere: questo aveva un'autonomia straordinaria e un fantastico senso dello humour. Dentro a quel palazzo però si subiscono trasformazioni genetiche, e il Prodi presidente del consiglio era irascibile, sospettoso, umbratile».

Berlusconi?

«Lo conobbi prima come tycoon televisivo e poi come padrone del Milan. Era un grandissimo seduttore, tentava di affascinare tutti. Indipendentemente dal sesso. Poi a palazzo Chigi sembrava prigioniero di un bunker».

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I vincitori del Premio Luchetta 2015 (foto Bruni)

Lei è amico di Mario Monti.

«Sì, ed è accaduto anche a lui. Voglio dire però che è stato un buon presidente del consiglio. Ha fatto degli errori, che il Corriere gli ha rimproverato, ma nel 2011 ci ha salvato. Se non ci fosse stato ora saremmo su una china greca».

Matteo Renzi?

«Ho già detto tutto di lui e non vorrei aggiungere altro. Le sue idee mi sono sempre piaciute, purtroppo però non abbiamo avuto un grande rapporto. Palazzo Chigi ha impresso anche su di lui una sorta di trasformazione».

Perché accade?

«Pensiamo a D'Alema, con cui ho avuto una lunga diatriba giudiziaria: prima delle regionali del Duemila era convinto che avrebbe governato per anni. Così non fu. Chi va a palazzo Chigi pensa che il potere, una volta ottenuto, non gli sfugga più di mano. Invece tende in. esorabilmente a farlo. Forse il grande leader è chi capisce che la sua parabola è determinata. Se Berlusconi avesse passato la mano in tempo, forse quello straccio di rivoluzione liberale che prometteva avrebbe avuto qualche possibilità di diventare concreta. Invece ha operato così a lungo da dispiegare tutti gli effetti negativi insiti nel conflitto d'interessi».

Guardiamo al mondo. Dopo l'11 settembre 2001 il Corriere ospitò un dibattito acceso.

«Ormai è come se fosse memoria di un altro secolo. Quando gli avvenimenti che mutano la storia accadono sotto i tuoi occhi di cronista, hai l'idea che non possano essere così dirompenti. Ti sforzi di ridurli alla pagina. Quel pomeriggio parlai con il cardinale Martini, mi disse che quell'evento avrebbe mutato la nostra idea di essere occidentali. Mi ricordai delle parole di Kennedy a Berlino e da lì scrissi il mio "Siamo tutti americani". Purtroppo quel sentimento è svanito molto presto».

Perché?

«C'è stata una sorta di rimozione. Nell'era della multimedialità le immagini dell'attacco alle Torri non si trasmettono quasi più. Sono nella nostra testa, ma è come se ad un certo momento il mondo e gli Usa avessero avuto la necessità di rimuovere e ricostruire».

Come nacque il celebre testo di Oriana Fallaci?

«Oriana non scriveva da un decennio. Era turbata e ferocemente indignata come solo lei sapeva essere. Cominciò un lungo corteggiamento per indurla a scrivere un articolo ma lei non ci pensava nemmeno: "articolo" per lei era un termine dispregiativo, ci vedeva un'assenza di senso della storia. L'andai a trovare per un'intervista e trovai che si era già scritta domande e risposte. "A questo punto fallo tu", le dissi. Passarono lunghi giorni, bozze e controlli ossessivi. Alla fine le proposi il titolo "Il massacro e l'orgoglio", lei lo cambiò in "La rabbia e l'orgoglio". Nacque così».

E la risposta di Terzani?

«Con Tiziano ci si vedeva quando veniva a Milano. Era fantastico portarlo a un classico ristorante milanese come il Savini e vederlo sedere, tutto vestito di bianco, nella posizione del loto. I due non si parlavano da tempo, pur essendo entrambi fiorentini. Purtroppo non ci fu un vero scambio, per il carattere di entrambi ma soprattutto per quello insopportabile di Oriana».

Lei non gradì.

«Io sono orgoglioso di averli fatti dialogare, ma lei accettava solo devozione assoluta e acritica. Mi venne in aiuto Giovanni Sartori con un articolo intitolato "Uditi i critici ha ragione Oriana", però questo non le bastò. Per farmi perdonare mi presentai davanti a casa sua a New York: non rispose. Andai in albergo, scrissi una lettera e gliela infilai sotto la porta. Tornato a Milano ricevetti una missiva da oltreoceano. Era la mia lettera, intonsa».

Longanesi ha settant'anni di storia. Le case editrici in Italia hanno ancora il peso che avevano nel panorama culturale italiano?

«Sicuramente. Le case editrici, e Longanesi in particolare, ricoprono un ruolo identitario in un'Italia che fatica a trovare la profondità culturale dei propri legami. Vorrei accadesse quel che vedo in Francia, dove le case editrici sono parte integrante dell'identità francese. Quello che siamo e vogliamo essere è scritto nei libri che leggiamo e scriviamo. Per fortuna l'Italia ha la ricchezza di tanti editori, tante case che compongono ogni giorno questo lungo romanzo italiano. Vergato con diversità di opinioni, linguaggi diversi e grande voglia di conoscere. Senza pregiudizi e senza nessuno che ti dica cosa devi scrivere». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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