Federico Buffa: «Quel rigore inesistente che cambia la vita»

Il celebre raccontatore di storie martedì alla Contrada e mercoledì a Cormons «In scena porto la mia vita, l’educazione di mio padre che amava teatro, sport, viaggi»



«Sono un totale incapace». Federico Buffa giudica così la sua nuova veste di attore, ma è un giudizio cui probabilmente non crede nemmeno lui, forte del successo che riscuote nei teatri. Da “Berlino ’36” a “Night in Kinshasa” fino all’ultimo “Il rigore che non c’era” (al Bobbio martedì e al Comunale di Cormons mercoledì), una sorta di “cosa sarebbe successo se”, l’affabulatore televisivo, il grande raccontatore di storie sportive che si è meritato anche il plauso di un critico esigente come Aldo Grasso, si sta misurando con l’emozione di avere di fronte un pubblico in carne e ossa.

Dalla tv al teatro, come si trova in questa nuova dimensione?

«In questo momento stare in palcoscenico è la cosa che mi piace di più al mondo e cerco di imparare ogni sera, visto che non sono un attore».

Difficoltà di adattamento?

«All’inizio ero perplesso. Non ero convinto di avere una voce che potesse resistere due ore e un quarto per più sere consecutive. E soprattutto non ho una voce teatrale, ho una voce televisiva, che è tutta un’altra cosa. Piano piano ci ho lavorato sopra e la mia voce ha cominciato a prendere una cadenza teatrale, un respiro diverso».

Ne “Il rigore che non c’era” per la prima volta con lei sul palco ci sono altri protagonisti, Marco Caronna, che è anche il regista, Jvonne Giò, che interpreta un angelo custode e disincantato e il pianista Alessando Nidi. Che tipo di spettacolo vedremo?

«Uno spettacolo modulare. Faccio un esempio, Marco mi chiede di fare qualcosa sul Sudamerica e io faccio un monologo, che è indipendente dallo spettacolo, sono come Sheherazade nelle “Mille e una notte”. Accanto alla scrittura drammaturgica fissa, ogni sera facciamo qualcosa di diverso. Nelle ultime settimane abbiamo inserito qualche accenno che riguarda le città dove recitiamo. A Genova ho raccontato di quando nello stadio del Boca Juniors di Buenos Aires si parlava in genovese. Spero che Marco me lo chieda anche per Trieste».

Siamo abituati a sentirla raccontare di sport, il titolo dello spettacolo, “Il rigore che non c’era”, ci dice che continuerà su questa linea?

«In realtà lo sport non occupa che una parte minima dello spettacolo, il titolo rimanda a quell’evento che ha cambiato la storia di una partita o di una vita. In un luogo fuori dal tempo sfilano personaggi ad un bivio, davanti ad una scelta, condannati a raccontare e a raccontarsi».

Lei ha cambiato molti mestieri. Dopo essere stato avvocato, procuratore sportivo, telecronista, si è inventato questa veste di raccontatore.

«È stato tutto sorprendentemente casuale. Diciamo che il passaggio da telecronista a narratore televisivo è una cosa interna a Sky. Sognavo di commentare il basket all’olimpiade di Londra del 2012 ma non mi ci mandarono, in compenso mi chiesero di fare dei piccoli racconti come riempitivi per le partite che andavano in diretta di notte. Il responsabile calcio di Sky li vide e mi propose di farne uno sul calcio, così nacque quello sull’infanzia di Maradona, e a quel punto me ne chiesero altri. Poi al mondiale del Brasile feci “Storie mondiali”».

Quindi il passaggio sul palcoscenico.

«Tre anni fa il teatro Menotti di Milano mi aveva proposto di fare lo spettacolo sulle Olimpiadi del ’36. Non avevo mai messo piede su un palcoscenico prima d’allora. Lo spettacolo doveva durare tre repliche e alla fine sono state centoventisei in due anni. Una risposta totalmente inattesa».

Il suo successo nasce dal mix di registri diversi. Come è giunto a questa alchimia?

«Quello che faccio rappresenta la mia vita, l’educazione che ho ricevuto da mio padre, grande appassionato di teatro, sport e viaggi».

Quali sono le storie che le danno più stimolo?

«Ho la fortuna di poter raccontare quello che mi piace. Mi hanno chiesto di raccontare di ciclismo, ma non mi sento coinvolto».

Lei è nato nel 1959, ha conosciuto il Subbuteo, il calcio da tavolo?

«Altroché. Ci ho giocato tantissimo, intere giornate. Fu un’idea meravigliosa che solo gli inglesi potevano realizzare».

Ha pensato a una storia su questo gioco?

«Me l’hanno chiesta, chissà». —

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