Fausto Coppi cent’anni di fatica e gloria da Campionissimo
Era nato per correre. Le lunghe gambe da fenicottero, il profilo affilato, il naso a tagliare il vento. I battiti del cuore, trentasei a riposo. Una fuoriserie. Il prossimo anno saranno cento anni dalla nascita. Eppure Fausto Coppi, Fostò per i francesi, quelli che si incazzavano se vinceva Bartali, ma pure se vinceva Coppi, si incazzavano molto i transalpini in quegli anni di trionfi italiani al Tour, sembra eternamente giovane. Forse perché caro agli dei è chi muore così, a neppure quarant’anni, nel 1960, di malaria. Ma anche per quel suo essere moderno, nella preparazione intanto. Il triestino Giordano Cottur, ottimo ciclista con la sfortuna di essere nato proprio negli stessi anni di Coppi e Bartali, ne ammirava quel suo essere all’avanguardia, col medico, il massaggiatore e uno squadrone a fianco. Astemio, controllato nel mangiare, sempre a letto presto. Correva con gli occhiali da sole, sembrava un industriale in bicicletta, in quell’Italia tra il dopoguerra e il boom. Un’Italia che si stava ricostruendo e che guardava all’America. E lui, anche nel privato, precorreva i tempi. Una storia d’amore con una donna sposata, la Dama Bianca, grande scandalo sui rotocalchi, pruderie di un paese cattolico dove la morale era quella di don Camillo, e le tentazioni adulterine si componevano nel silenzio del tinello della canonica.
Solo il dolore è verità, diceva un poeta russo. Anche la noia, aggiungeva. Ma non ci si annoiava quando correva Coppi, come dimenticare la leggendaria fuga di 190 km nella tappa da Cuneo Pinerolo del Giro del ’49? Ma il dolore sì, quello della fatica, la fatica muta e bianca che non cambia mai, come cantava di lui Gino Paoli. Nessuno sport come il ciclismo ti mette di fronte al dolore. I muscoli che urlano, lo stomaco che si torce, le ossa che si rompono sull’asfalto per una caduta. Battendo la testa a Coppi morì il fratello Serse, e dicono che da allora non fu più lo stesso. Era silenzioso, di poche parole contadine, quelle delle colline dell’alessandrino, un che di Fenoglio, di Pavese. Quei silenzi piemontesi che non sono solo, come in quel motto che dice tanto ma anche mente, falsi e cortesi. Pudore. Faceva beneficienza agli orfanotrofi e quando andava a trovare qualche bambino disabile si fermava un paio d’ore a parlare con lui. Ma non era un santo. Umano come tutti, aveva le sue antipatie. Si dice che ce l’avesse con Guido De Santi, che a Servola ha avuto per anni un negozio di alimentari, perché partiva a razzo, al pronti via e Coppi, che voleva controllare la corsa, detestava uno che gli sparigliasse le carte. "Ma io cosa potevo fare se non giocare d'anticipo", si giustificava De Santi, che poi ha sempre negato gli attriti con Coppi. Ma intanto una volta la Dama Bianca lo insultò dalla macchina, e lui a rispondere per le rime.
Di Coppi si è scritto e parlato molto, quand’era in vita. Dopo la sua morte ancora di più. Il più grande di tutti i tempi? E giù a fare paragoni con Merckx. "Lui il più grande io il più forte?" si chiede oggi Eddy. "Io volevo essere il migliore della mia generazione, lui la sua l'ha stravolta". Con le bici in acciaio che pesavano più del doppio di quelle di oggi, che paragoni si vogliono fare? Meglio tuffarsi nelle immagini.
'Coppi per sempre' (Gribaudo, 525 pagg., 35 euro) è uno spettacolare viaggio in centinaia di foto raccolte senza tante parole, da gente pratica, in grande formato, da Auro Bulbarelli, giornalista Rai e Giampiero Petrucci, storico del ciclismo. Istantanee, prime pagine di giornali, locandine di kermesse, accompagnate da brevi spiegazioni. Da sfogliare per ripercorrere, anno per anno, una vita in bici.
Una vita interrotta troppo presto. Coppi voleva correre fino a cinquant'anni e ci sarebbe riuscito, era un corpo fatto per quello, la cassa toracica in fuori, i polmoni che tenevano più aria degli altri. Era ipertiroideo, il suo metabolismo andava più forte, come se non volesse fermarsi mai, neanche dormendo. E in aggiunta una volontà di ferro. Si allenava in modo maniacale, sfiancava i suoi fedelissimi gregari, Sandrino Carrea ed Ettore Milano, su e giù per i colli novesi, una sosta a mangiare pane e uva e poi di nuovo in sella, sempre per allungatoie. Una volontà disperata, forse per il ricordo della fame che gli si leggeva ancora in volto. Cinque giri d'Italia, due Tour de France, un mondiale, in poche parole ‘Il Campionissimo’. —
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