Ezio Mauro: «Così finisce il vecchio giornalismo di chi scrive dal pulpito»

L’ex direttore di “Repubblica” ritira giovedì a Trieste il Premio FriulAdria Testimoni della Storia
Ezio Mauro
Ezio Mauro

TRIESTE Ezio Mauro vince la quinta edizione del Premio FriulAdria Crédit Agricole Testimoni della Storia, promosso dal Premio Luchetta su impulso di FriulAdria Crédit Agricole e d'intesa con i festival pordenonelegge ed èStoria. Giornalista di lungo corso, storico direttore de “La Repubblica” dal 1996 al 2016, Mauro viene premiato per, come si legge nelle motivazioni del premio, «le sue qualità di acuto e autorevole osservatore della società italiana e per le doti di equilibrio e correttezza con cui ha guidato per molti anni uno dei principali quotidiani del nostro Paese, portandolo a diventare un punto di riferimento nel mondo del giornalismo dentro e fuori i confini nazionali».

Il premio, assegnato nelle scorse edizioni a Gianni Minà, Giovanni Floris, Lilli Gruber e Ferruccio De Bortoli, sarà consegnato giovedì dalla presidente di FriulAdria Crédit Agricole Chiara Mio, alle 18 nella sala principale della sede della Regione, a Tries te, in piazza dell'Unità d'Italia, nel corso di un incontro con il direttore de “Il Piccolo” Enzo D'Antona. E sempre giovedì, alle 20.30, al Politeama Rossetti di Trieste, Mauro sarà fra i protagonisti della tredicesima serata "I nostri Angeli", evento culminante del Premio Luchetta 2016 (gli inviti gratuiti si possono ritirare fino ad esaurimento dei posti, da oggi, dalle 9 alle 14, alla biglietteria del Politeama Rossetti).

Quando ha pensato, la prima volta, di fare il giornalista?

«Ho sempre voluto fare il giornalista - risponde Ezio Mauro -, sin da quando ero bambino. Sapevo a memoria l’attacco dei pezzi di giornalisti come Giorgio Bocca e Vittorio Gorresio, e me li ricordo ancora oggi. Ho scoperto la politica attraverso i giornali, ho scoperto la passione dello scrivere attraverso i giornali, e il giornalismo è sempre stato un sogno più che un progetto. Perché vengo da un paesino molto piccolo, Dronero, in provincia di Cuneo, dove non c’era nessun contatto con il mondo delle redazioni. Avevo questa passione, ma non sapevo assolutamente se ce l’avrei mai fatta a intraprendere la professione. E alla fine ho seminato giornali ovunque sono stato: ho fondato un giornale in terza media, uno al ginnasio, un altro nel collegio dov’ero, e ho fondato un giornale a Dronero, che c’è ancora».

Insomma un giornalista e direttore decisamente precoce...

«Il primo è stato quello realizzato in terza media...e che venne subito sequestrato dal preside».

Perché?

«Perché non aveva la sua autorizzazione».

Come si chiamava il giornale?

«La testata era sostituita dal disegno di un grande punto di domanda: l’idea era di lanciare proprio con il primo numero un concorso fra i lettori per scegliere il nome».

Già allora aveva un’idea piuttosto chiara di democrazia...

«Diciamo un’idea piuttosto sommaria...».

Poi finalmente l’ingresso nella professione.

«Ricordo il mio primo giorno da cronista, nel 1972, alla Gazzetta del Popolo. Mi misero seduto a una scrivania ad ascoltare il baracchino, uno scanner che intercettava le radio di polizia e carabinieri, un apparecchio costruito con il compensato da quel genio che era Ito De Lorandis (uno dei padri dei tg e della tv italiana con Piero Angela, Enzo Tortora, Gigi Marsico, ndr). Intercettavo anche la Stampa, loro erano più ricchi e i cronisti andavano in giro con l’autoradio».

Erano anni difficili quelli...

«Quando le radio intercettate si mettevano a gracchiare tutte insieme allora voleva dire che c’era stato un attentato. E allora si correva lì, a volte riuscivamo ad arrivare sul posto prima della polizia».

Lei si è formato come giornalista proprio negli anni del terrorismo politico, gli anni delle Brigate rosse e delle stragi. Cosa ha imparato da quelle esperienze?

«Intanto sono stati gli anni peggiori della nostra vita, e a volte tendiamo a dimenticarlo. Ne siamo usciti, ma è stata la guerra della mia generazione, soprattutto in una città come Torino, dove quando ti alzavi al mattino già sapevi che avresti avuto a che fare con qualche attentato. Sparavano alle guardie carcerarie, sparavano alle guardie della Fiat, sparavano ai giornalisti. Ricordo quando, nell’ottobre del 1977, gambizzarono il consigliere comunale della Dc Antonio Cocozzello. Quando arrivai sul posto lo vidi a terra, con le gambe spazzate, si teneva su con la schiena. Gli stavano tagliando i calzoni e vederlo così, con le mutande da pochi sodi comprate nei mercatini, mentre mi chiedeva di prendere le cartelle di plastica che aveva con sè e di portarle al sindacato perché c’erano dei pensionati che aspettavano quelle carte...Cocozzello era un uomo semplice, un lucano che aveva fatto le lotte per la Lucania, aveva scoperto il sindacato, la Cisl, e il sindacato l’aveva fatto studiare, lui era diventato maestro elementare, si impegnava per gli altri...e quando tornai in redazione e vidi il comunicato delle Br che rivendicava l’attentato nel nome del proletariato contro il capitalismo, allora capii che non si spara a una persona per le sue idee. Intendiamoci, neanche a noi, ai ragazzi della mia generazione, piaceva il potere democristiano, non ci piaceva lo Stato delle stragi, di Piazza Fontana, ma lo Stato doveva essere difeso proprio per poterlo cambiare».

Giornalista come testimone o protagonista?

«Protagonista proprio no. Forse lo sono i giornalisti televisivi. Ma il giornalista della carta stampata non si deve vedere, lui ci mette la responsabilità della firma, il suo è un concorso di responsabilità, e l’unico protagonismo che ha è quello della responsabilità. Il giornalista è un testimone. E se è bravo e fortunato, sa come trovarsi là dove avvengono i fatti, in nome e per conto del lettore. Ha una posizione, un angolo di visuale privilegiato, ma è lì per arrivare alla conoscenza profonda dei fenomeni. È lì per fare un’operazione meravigliosa, e cioè ricostruire la ricchezza, la complessità di quello che ha visto e incontrato. E quando riesce in questa operazione fa un servizio incommensurabile al lettore, perché lo porta dentro le conoscenze. Noi non facciamo solo informazione, perché l’informazione è una commodity, visto che ormai si può trovare e prendere ovunque. Il giornalista opera un disvelamento della conoscenza, aiuta a entrare dentro la conoscenza dei fatti. E questa è la ragione morale e civile del nostro mestiere».

Mestiere che con Internet e i social sta cambiando. Come?

«È finito ciò che doveva finire ed era durato anche troppo: il pulpito, la comunicazione dall’alto verso il basso. La voce del giornalista non è più la voce che dice come bisogna raccontare le cose, ma una voce orizzontale fra le tante. Però il giornalista ha la possibilità di dire e dare al lettore qualcosa di più: connettere fra loro i fatti, inserirli in una prospettiva storica, e poi assumersi anche la responsabilità, dopo aver dato le opinioni delle parti, di dire come lui la pensa. Non è l’esercizio di un diritto ma l’esercizio di un dovere, e non perché il giornale debba convertire, il giornale non è né un prete né un partito, ma semplicemente perché il giornale dà assieme alle conoscenze anche il suo punto di vista, che nasce dalla sua storia ed è interpretato dall’identità culturale e soggettiva di chi scrive. Tutto ciò perché alla fine del percorso il lettore possa formarsi una propria e libera opinione. Se questa operazione riesce, è qualcosa che vale infinitamente più del prezzo di un giornale».

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