Emilio de’ Rossignoli, il vampirologo venuto dalla Dalmazia
Scompariva 40 anni fa il critico e scrittore amico di Tullio Kezich. Nel 1961 fu autore di un volume in cui faceva il punto sui “succhiasangue”, intitolato “Io credo nei vampiri”, in sintonia con il ritorno di Dracula nella cinematografia del suo tempo
TRIESTE Per anni nella redazione di un settimanale ho lavorato fianco a fianco con un collega che credeva nei vampiri». Era questo l’incipit di un articolo di Tullio Kezich, dalla prima pagina del “Corriere della Sera” del 26 luglio 1992, a proposito di Emilio de’ Rossignoli, giornalista e scrittore poco noto (ma molto amato dai cultori del fantastico), che nel 1961 aveva dato alle stampe, dopo lunghe ricerche, un volume dal perentorio titolo “Io credo nei vampiri”.
Il pezzo di Kezich, intitolato “Non sempre il Principe del Male vien per nuocere”, serviva a commentare l’ennesimo ciclico revival al cinema del vampirismo, che per quella stagione aveva in serbo il “Dracula” di Coppola. Così oggi anche noi, in vista del nuovo “Nosferatu” di Robert Eggers dal 1° gennaio, cogliamo l’occasione per un revival della singolare figura del dalmata Emilio de’ Rossignoli, detto il “conte vampirologo”, scomparso proprio 40 anni fa (a Milano il 28 dicembre 1984), legato a Trieste non solo per l’amicizia con Kezich.
«Massiccio e facondo, intelligente e spiritoso» (così lo descriveva Tullio), de’ Rossignoli era nato nel 1920 a Lussinpiccolo e aveva studiato a Trieste, dove il padre Dino era preside dell’Istituto Nautico. Una sua trisavola era stata sepolta viva, raccontava. Si era dedicato presto al giornalismo ed era stato deportato dopo l’8 settembre 1943 in Germania. Nel dopoguerra era entrato nell’editoria milanese sfornando articoli di ogni genere e collaborando a vari periodici, fra i quali “Settimo giorno”, dove condivideva con Kezich non solo la stanza di lavoro ma anche l’attività di cinecritico. Inoltre, con un percorso geografico e intellettuale simile a quello di un altro emigrato esteuropeo, Giorgio Scerbanenco, si era dedicato con vari pseudonimi a romanzi gialli e neri per collane popolari.
“Io credo nei vampiri”, pubblicato dunque nel 1961 per l’effimera casa bolognese Ferriani, era il primo libro scritto dal de’ Rossignoli col suo “vero” cognome (con l’apostrofo nobiliare forse aggiunto per vezzo). Ma anche la genesi di quel volume porta tracce triestine, di quella Trieste sempre sedotta dall’occulto e che negli anni ’60 con Magris, Bazlen, Voghera, era pioniera in Italia nella cultura non allineata, mitteleuropea, esoterica, psicanalitica (e nella fantascienza col Festival).
Un anno prima infatti, la Feltrinelli aveva pubblicato “I vampiri tra noi”, antologia di 37 storie vampiresche - alcune inedite in Italia come “Il vampiro” di Polidori o la “Carmilla” di Le Fanu - curata da Valerio Riva e dalla triestina trapiantata a Parigi (poi collaboratrice di Fellini) Ornella Volta, la vampirologa per antonomasia. L’antologia si apriva con la confessione scritta di John George Haigh, serial killer britannico giustiziato nel 1949 e autodefinitosi vampiro.
In “Io credo nei vampiri” de’ Rossignoli riprende con parole sue questa suggestione, tracciando in 121 agili capitoletti una personale e dettagliata storia del vampirismo fra leggende, libri, molti film e alcuni “fatti”. Nel capitolo finale, “Il mio credo”, scrive: «Credo nei vampiri e non sono in cattiva compagnia», aggiungendo una sfilza di nomi illustri partendo da Rousseau e Byron. E portando come prova il fatto che i vampiri «popolano le cronache criminali di nomi vecchi e nuovi», da Jack lo squartatore ai più recenti e meno famosi Sal Agron, portoricano di New York, e il milanese Giuliano Ballerini, il “Dracula di Porta Genova”, arrestato nel 1959.
Nonostante “Io credo nei vampiri” (come del resto il francese “Le vampire” di Ornella Volta del 1962) fosse nato dal successo del “Dracula” del 1958 con Christopher Lee, il libro di ‘de Rossignoli non sembra affatto un testo snob alla moda. La prosa è sobria, la documentazione è accurata, l’approccio – pur con l’obiettivo bizzarro di testimoniare l’impossibile - è critico. Anche per questo “Io credo nei vampiri” è durato nel tempo, tanto da venir ripubblicato nel 2009 da Gargoyle con commenti di Danilo Arona e Loredana Lipperini, mentre nel 2018 le edizioni Profondo rosso hanno dedicato alla figura di de’ Rossignoli il volume “L’uomo che credeva nei vampiri”.
Prevalentemente cinematografico - perché si sofferma sui film più iconici del filone, dal “Nosferatu” di Murnau a “Vampyr” di Dreyer, fino al cult dell’epoca “Et mourir de plaisir” di Vadim - “Io credo nei vampiri” è però talmente imbevuto con passione di vecchie leggende, da collocare il cinema in una dimensione quasi atemporale. Così, scorrendone le pagine, ci sembra di essere trasportati a fine ‘800, quando l’impresario teatrale Bram Stoker inventava Dracula, e il primo cinematografo conviveva con gli spettacoli illusionistici. Quando i treni, o i vampiri, potevano anche uscire dallo schermo. —
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