Edoardo Boncinelli: «Il sacro ci fa male colpa del cervello»

di PIETRO SPIRITO
Si fa presto a dire sacro. Perché Homo sapiens è tanto fissato con il sacro? Perché abbiamo tanto bisogno di aggrapparci a una religione, visto tutti i guai che le religioni combinano? Ma soprattutto, oggi, abbiamo ancora bisogno di sacralità? È proprio necessaria tutta quest’ansia metafisica? Sono queste alcune delle domande cui tenta di dare una risposta Edoardo Boncinelli nel suo nuovo libro dal programmatico titolo “Contro il sacro” (Rizzoli, pagg. 230, euro 18,00) e dall’ancora più esplicito sottotitolo: “Perché le fedi ci rendono stupidi”. Tra il pamphlet e lo speculativo-filosofico il libro è un ragionamento intorno alla necessità dell’uomo di lasciarsi andare all’irrazionale, con tutti i guai che questo comporta. Genetista di fama e già direttore della Sissa di Trieste, scienziato che non disdegna incursioni nei più ardui campi dell’umanistica, dalla filosofia alla teologia, Boncinelli torna battere la strada della difesa a spada tratta del razionalismo, compattando le fila di quegli scienziati - da Oddifreddi alla compianta Margherita Hack - che si sono battuti e si battono per richiamare l’uomo a una maggiore responsabilità individuale nei confronti della vita, contro tutti i credo. Perché, conclude Boncinelli, «ovunque il ricorso all’intoccabilità del sacro favorisce l’ignoranza e conduce all’isolamento».
Dunque, professore, se abolissimo il sacro il mondo sarebbe migliore?
«Diciamo - risponde Boncinelli - che l’incombenza nella vita quotidiana migliorerebbe. Però sono consapevole dell'importanza del sacro oggi. Perciò il libro è diviso in due parti: una polemica sull'abuso del sacro oggi, e un'altra dove argomento che, se il sacro c'è, a qualcosa deve servire».
E a che serve?
«A farci stare tranquilli. Il punto è che la gente ha fame di bugie»
Non sembrerebbe, la divulgazione scientifica va forte.
«A parte il fatto che in Italia scienza vuol dire medicina, la verità che c’è fame di una scienza che si snodi come un racconto, come un favoletta. Continuo sentire una resistenza pressoché infinita da parte della gente ad ammettere che la scienza dica cose vere e che possano servire...sì, qualche volta può servire, ma può servire per caso, in realtà per tanti la scienza dice tutte scemenze».
E questo porta...
«...a una grave forma di scetticismo, che però è collegato a tante altre cose, perché appunto l'uomo preferisce le bugie alle verità. Sennò non ci sarebbero le mitologie».
Ma le mitologie non sono esattamente bugie, sono un modo metaforico e allegorico per interpretare e rappresentare la realtà.
«Questo lo dice lei, ma non lo dico io».
Il suo libro è in definitiva un’opera filosofica. Che distanza c’è oggi fra scienza filosofia?
«Quella di sempre: infinita. Intendiamoci, fino al 600 con filosofia si intendeva la stessa cosa: la filosofia era sinonimo di scienza. Ma da Galileo in poi, e soprattutto oggi, tra scienza e filosofia c’è un abisso».
Eppure lei. insegna in una facoltà di filosofia, si considera anche un filosofo.
«Sì, ma non è colpa mia, tutti dicono che sono un filosofo, io lo nego ma tutti insistono a dire che sono filosofo. Preferisco dire che sono un pensatore».
Anche i valori, come giustizia, saggezza, bellezza, ecc., lei dice, sono spesso il braccio secolare del sacro, e la loro radicalizzazione porta al terrorismo. Dovremmo fare a meno dei valori?
«Sì, dovremmo fare a meno dei valori. Però siccome di botto non si può fare, allora dovremmo cercare di dare il giusto valore ai valori, anche se sembra un gioco di parole. I valori servono, ma non devono essere indiscutibili, assoluti, perché i valori indiscutibili portano alla guerra e al terrorismo».
Vale anche per la giustizia?
«La giustizia non la metterei fra i valori...».
Lo fa, a pagina 54.
«Attenzione però al significato che diamo alle parole. È come la salute: che la salute vada ricercata non c'è dubbio, ma che la salute, come la giustizia, vadano ricercate non significa che questo debba essere fatto in modo assoluto. I valori in genere sono positivi, il problema che l'uomo è così bravo da adoperarli come arma, per disprezzare e attaccare gli altri».
Uno dei cardini del suo ragionamento è che le cose accadono anche senza ragione. Ma al di là del sacro come si può gestire l’indeterminatezza che tanto ci spaventa?
«Che non sia sempre una ragione in ciò che accade non lo dico io, lo dice la scienza. E l’indeterminatezza riguarda solo il mondo piccolo e il mondo grande grande. Noi però viviamo in questo mondo di mezzo, dove quasi tutto è determinato. Certo, il problema è il “quasi”. Allora finisce che si cerca un capro espiatorio, o una ragione a tutti i costi, spesso con effetti devastanti».
Nel libro lei si sofferma a lungo sui rapporti tra cibo e sacralità.
«È uno dei principali problemi che ho. Mi fa girare le scatole. Da una parte tutte le religioni ti dicono cosa devi mangiare, quando e dove. Ma anche se non interviene la religione la gente si inventa principi e precetti assurdi, come succede con i vegani e i vegetariani. Il cibo assurge spesso a una tale importanza da consideralo fondamentale, assoluto, quando in realtà bisogna mangiare punto e basta».
Però se mangiassi, che so, solo cioccolata il mio organismo avrebbe qualcosa da dire...
«Ma lei pensi al numero di celiaci che esiste oggi. Fino a poco tempo fa la percentuale era del 4-5 per cento in tutte le nazioni, e adesso improvvisamente siamo al 30-40 per cento, sono diventati tutti celiaci. È una follia. E soprattutto non è vero».
Perché secondo lei?
«Perché all'uomo piace sentire spiegazioni del tubo. L'uomo è infelice per natura, dice sempre che non sta bene, anche quando scoppia di salute. E se un medico o una qualsiasi autorità dice che questo malessere è dovuto a questa o quella spiegazione la gente ci si aggrappa come a una verità».
Dunque il problema dei problemi è l’infelicità dell’uomo, e questa deriva dalla coscienza che dobbiamo morire…
«Questo lo dice Severino. La mia spiegazione è che l'infelicità deriva dal fatto che il nostro cervello è cresciuto troppo, e quindi ci permette di avere da una parte la coscienza, e dall'altra la capacità di paragonare eventi nel tempo e nello spazio, cosa che nessun animale ha. E questo ci porta a uno stato quasi inevitabile di infelicità, che non tutti saprebbero definire ma tutti in un modo o nell’altro avvertono».
E purtroppo l’ultimo aggiornamento evolutivo del nostro cervello risale a 150mila anni fa...
«Appunto, abbiamo un cervello vecchio, e prima che si adegui per via biologica passeranno almeno altri 3-400 mila anni».
Tempi lunghi viste le emergenze. Come ne usciamo?
«Dobbiamo sopperire con l'evoluzione culturale a ciò che non può fare l’evoluzione biologica. Se ci affidiamo alle scienze, alla razionalità e alla riflessione secondo me ce la faremo. Ma non sarà una passeggiata».
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