È una donna esile “Il grande marinaio” che cerca se stessa nei mari dell’Alaska

TRIESTE «Dove va? – mi chiedono. “In Alaska”. “A fare che? ”. “A pescare”. “Ha mai pescato? ”. “No”. “Conosce qualcuno? ”. “No”. “God bless you”, “Dio la benedica”». La pescatrice è una ragazzina esile, timida, così ce la immaginiamo ne “Il grande marinaio” (Neri Pozza, pagg. 400, euro 18), il romanzo autobiografico di Catherine Poulain.
Un esordio che è subito diventato best seller e che verrà presentato a Trieste nel primo giorno di “Barcolana un mare di racconti”, il festival letterario diretto da Alessandro Mezzena Lona, che apre i battenti oggi (per proseguire con molti appuntamenti fino al 6 ottobre) al Castello di San Giusto, ospite anche Pupi Avati. Catherine Poulain è davvero andata in Alaska a pescare.
Per dieci anni in mezzo a un covo di uomini, in mezzo a un mare spietato, comunque seducente, sempre simbolo di vita e di morte: «Non volevo morire di noia», dice la protagonista, Lili, abitata da un’inquietudine che la costringe a un nomadismo inesorabile. Per cercare cosa? Qualcosa che assomigli alla passione, all’estremo, alla felicità, certuni sono fatti così, si sentono vivi nella battaglia e di certo i mari dell’Alaska non risparmiano pene.
Il risultato sono quattrocento pagine di avventura, pesca feroce, notti selvagge, alcol, generazioni di individui che inseguono l’ultimo limite sottoponendo il corpo a fatiche che non potremmo neanche immaginare. Pescare è faticoso, una caccia spietata, perché la fine è spietata. Ciò che conta è vivere, sentire, sfinirsi, partire da un porto all’altro come se partire significasse perdersi per ritrovarsi: «Andare su un peschereccio nei mari dell’Alaska è innanzitutto un “andare verso l’ignoto” piuttosto che “scappare da” – ci confida l’autrice – liberarsi, sciogliersi dalla riva, liberarsi da tutte le certezze che ti sono state insegnate, tutto ciò a cui sei abituato, la strada giusta che dovevi seguire con la mandria». «È doloroso - continua Catherine Poulain -, spaventoso, una specie di deprivazione di te stesso, devi perderti davvero se vuoi che il viaggio possa iniziare, come un bambino che non sa nulla e deve imparare di nuovo tutto. Così io raggiungo il mondo, lasciando che cuore, anima e corpo saltino nel flusso, vengano portati via dalla corrente. Se sei fortunato troverai il filo della tua vita: ti perdi per trovare la tua strada».
E in questa specie di salvifica sottrazione identitaria ci sono dentro quasi tutti, tutti i protagonisti di un vero e proprio romanzo corale, da Dave a Jesus, Lili, Ian, Simon, Joey, Ryan, Bruce e molti altri, criminali o sognatori, tutti in viaggio verso il limite del mondo, ma nessuno di loro è il grande marinaio: «Per me il grande marinaio sarà sempre Jude, quegli uomini che la gente chiama “perdenti”, Jude è un alcolizzato, bruciato dalla vita, dalla solitudine e dall’eccesso, diventa un grande uomo solo quando torna a pescare, in piedi sul ponte, di fronte all’oceano, un leone, quasi una creatura mitologica».
Lili non può che innamorarsene, ama la sua vitalità, la stessa che esplode nella spietatezza con cui gli uomini uccidono i pesci. Una vera carneficina dove spesso è difficile capire se si stia massacrando animali o uomini, quasi a indicare un mondo che ti toglie l’aria, che ti taglia ovunque. Come non esserne sopraffatto? «La scena della prima carneficina sulla nave Rebel è stata molto importante: Lili scopre con una specie di orrore, stupore e fascino la realtà del lavoro, della vita. Sognava romanticamente di diventare un grande pescatore e si rende conto che il lavoro non è “pulito”. Questa è la tragedia che si verifica dopo l’inizio di tutte le vite su questa terra, ogni creatura ne ucciderà un’altra per far sopravvivere la propria specie». «È barbaro - dice ancora Poulain-, non te ne accorgi più quando lo fai da anni e forse è meglio.
Qualcuno però deve fare il lavoro sporco se altri vogliono mangiare pesce, qualcuno deve mettere le mani nel sangue per nutrire gli altri. Questa è solo la realtà».
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