È Frankenstein il primo mostro che scuote la scienza
L’1 gennaio 1818 Mary Shelley pubblicava il romanzo che lancia il tema dei limiti etici del progresso

Durante l’estate del 1816, in una villa affacciata sul lago di Ginevra, alcuni giovani inglesi belli e geniali trascorrevano pomeriggi e serate leggendo ad alta voce romanzi gotici tedeschi. Un giorno uno tra essi lanciò la sfida ai compagni. “Ci sarà un premio per quello tra noi che comporrà la miglior storia di fantasmi”. Lord Byron e Percy Shelley, gli esponenti più noti del gruppo, abbozzarono vicende che non portarono poi a termine, mentre Mary Godwin, in seguito moglie di Shelley, iniziò a comporre Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, la sua opera più nota, pubblicata a Londra due secoli fa, il primo gennaio del 1818. Il romanzo, nel quale si racconta la storia di un mostro senza nome creato da uno scienziato con pezzi di cadaveri, apparve privo di firma e soltanto nel 1831, quando uscì la seconda edizione, Mary svelò la sua identità. In epigrafe la giovanissima debuttante pone tre versi dal Paradiso perduto di John Milton pieni di domande: “Chiuso nella mia creta, t’ho forse chiesto io,/Fattore, di diventare uomo?/ T’ho forse chiesto io di trarmi dalla tenebre?”.
Afferma, tra l’altro, l’anonima autrice in una nota introduttiva: «L’evento su cui poggia l’interesse della vicenda non presenta gli svantaggi del solito racconto di spettri o di incantesimi; esso si raccomanda per la novità delle situazioni che ne scaturiscono e, per quanto impossibile come realtà fisica, offre all’immaginazione un punto di vista più ampio e aperto di quello concesso da normali rapporti tra eventi reali».
Sin dall’inizio, dunque, Mary sottolinea la differenza decisiva tra il genere gotico e la vicenda da lei inventata. In Frankenstein l’intervento del soprannaturale, norma nei racconti di fantasmi, è del tutto assente. Lei, aggiunge, ha cercato di conservare la veridicità dei principi elementari della natura umana, provando a innovarne le combinazioni. Anche se in maniera un po’ criptica (e forse in parte inconsapevole), Mary sta tentando di spiegare che il suo Frankenstein è un’opera profondamente rivoluzionaria, che sovverte le regole della letteratura del periodo e inaugura una narrativa fantascientifica con solide basi filosofiche.
Il racconto dell’avventura di Victor Frankenstein e della sua creatura ha origine dall’abile intrecciarsi di tre destini che si incrociano. È un dettaglio decisivo, troppo spesso sottovalutato.
La prima storia, quasi sempre messa da parte in fretta dal lettore, è, infatti, quella dell’esploratore Robert Walton che scrive alla sorella Margaret raccontandole le proprie avventure di viaggio. Poi, a seguire, a incastro, ci sono quelle di Victor Frankenstein e della creatura mostruosa.
È errato considerare le lettere di Robert a Margaret solo una cornice del quadro, perché è invece una cornice che “entra” nel quadro al pari di tante visioni prospettiche del Settecento. Robert Walton e Victor Frankenstein hanno molto in comune. Entrambi rappresentano l’incarnazione contemporanea di Prometeo e hanno alcuni tratti di carattere che ricordano quelli di Faust. Li unisce la sete di conoscenza, il desiderio di tenere in scarsissimo conto i divieti morali ai quali quasi tutti gli esseri umani si attengono. Almeno a livello potenziale, entrambi sono dannati al pari di Prometeo. Walton riesce a mettersi in salvo perché in un momento difficile della navigazione rinuncia all’impresa preferendo salvare la propria vita e quella dei suoi uomini. Al contrario di Frankenstein che quando si persuade di essere ormai in punto di morte non smette di tessere le lodi del coraggio di cui, a suo dire, ha sempre dato prova. Il Victor Frankenstein creato da Mary ha molto in comune sotto il profilo intellettuale con il Faust di Marlowe, il dotto rinascimentale che rifiuta di sottomettersi alle leggi divine. Se all’epoca di Marlowe l’alchimia costituiva lo strumento utile per raggiungere l’obiettivo, a inizio Ottocento Victor Frankenstein ritiene senza alcun dubbio di poter ricorrere ai procedimenti della scienza ufficiale.
Le riletture critiche del racconto si sono moltiplicate soprattutto nei paesi di lingua inglese in coincidenza con l’imminente anniversario, riportando alla ribalta la figura di una donna geniale e sfortunata, che vide morire in tenerissima età tre dei quattro figli, restò vedova molto presto e trascorse gran parte della vita in povertà. Figlia del filosofo William Godwin e della femminista Mary Wollstonecraft, era nata a Londra nel 1797 e restò subito orfana della madre, uccisa dal parto. Appena sedicenne si innamorò di Percy Shelley, già sposato, e fuggì con lui e con la sorellastra Claire (incinta di Lord Byron) in Francia e in Svizzera. Dopo la morte del marito per annegamento nel 1822 durante un viaggio in barca da La Spezia a Livorno tornò in patria cercando di sfruttare la fama guadagnata grazie a Frankenstein, accolto con enorme favore dal pubblico.
Le lettere dimostrano che comunque non si pentì mai delle scelte fatte, nonostante le mille difficoltà che fu costretta ad affrontare. «Ritengo un privilegio aver messo il mio destino nelle mani di un essere superiore, un luminoso spirito cosmico, custodito in un tempio terreno, che mi ha fatto toccare le vette della felicità - afferma –. Sono stata così bene con Percy che non cambierei la mia pur modesta condizione in cui mi trovo ora con quella della creatura più agiata del mondo, e sono certa che con il tempo ritroverò la pace e la mia mente e il cuore non saranno più preda di un’angoscia senza nome». In realtà, sostengono molti studiosi, non riuscì affatto a trovare la quiete alla quale anelava a causa dei problemi economici ai quali dovette far fronte a causa della guerra dichiaratale dal padre del marito, un nobile ricchissimo che lasciò lei e il figlio senza un soldo.
Sotto il profilo letterario fu autrice geniale e di profonda cultura. All’origine di Frankenstein, il primo romanzo nero fantascientifico della letteratura moderna, c’è Milton e la sua produzione getta le basi della narrativa romantica al femminile alle quali attinsero in seguito le sorelle Brontë. Lo conferma Franco Pezzini nel recentissimo
“Fuoco e carne di Prometeo” (Odoya, 400 pagine, 22 euro)
dove rileva che la scrittura di Mary si addentra nei territori del macabro e del soprannaturale con risultati straordinari, che ne mostrano il naturale talento di cui aveva già dato prova nel suo capolavoro più noto e al quale il suo nome resterà per sempre legato. Purtroppo non ne trasse vantaggi in termini di guadagni perché Frankenstein le fruttò una somma abbastanza modesta e tutti i racconti successivi uscirono su riviste popolari che li pagavano poche sterline.
Quali sono i motivi all’origine del plurisecolare interesse per la creatura mostruosa creata da un medico? Ecco la spiegazione offerta pochi giorni fa dal New York Times: «Affascinato dall'orrore del mostro, il pubblico accetta senza discutere i vizi di chi lo distrugge, così come ne accetta la presentazione letteraria, la tipologia frusta e ripetitiva che, a contatto con l'ignoto, riacquista forza. Il mostro serve a spostare gli antagonismi e gli orrori che si manifestano dentro la società all’esterno di essa . Infatti in Frankenstein la lotta sarà tra una “razza diabolica” e la “specie umana”. Chi combatte il mostro diventa il rappresentante della specie. Il mostro, l'assolutamente inumano, serve a ricostruire una universalità, una coesione sociale che, di per sé, non sarebbe più convincente». Anche se forse non ne era consapevole, Mary Shelley nel 1818 pubblica un romanzo nel quale, grazie a un processo creativo di trasformazioni fantastiche, si affronta per la prima volta il tema etico legato ai limiti morali del progresso scientifico. Che, da allora, non ha più abbandonato la ribalta in ambito filosofico e narrativo.
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