“Distruggere l’Austria” tuonavano convinti gli intellettuali inglesi

Oggi all’Università di Berna congedo “magistrale” per la docente triestina Marina Cattaruzza
Di Marina Cattaruzza
Lasorte Trieste 29/03/2006 - Marina Cattaruzzi
Lasorte Trieste 29/03/2006 - Marina Cattaruzzi

di MARINA CATTARUZZA

Nel 1918, verso la fine di aprile, tutti i governi dell'Intesa si erano convinti che lo Stato asburgico era destinato alla dissoluzione e che al suo posto dovevano sorgere nuovi Stati nazionali. Tuttavia, tale convinzione era piuttosto recente e rappresentava il risultato di complessi processi decisionali, il cui esito era tutt'altro che scontato. Infatti, ancora nel gennaio 1918, sia il presidente americano Woodrow Wilson che il Primo ministro britannico Lloyd George si erano pronunciati pubblicamente a favore del mantenimento dell' Austria-Ungheria, limitandosi ad auspicare una riforma dello Stato in senso federale.

Abbattere la Monarchia

Già allo scoppio del conflitto, però, c'erano stati alcuni che avevano caldeggiato la distruzione della Monarchia asburgica e la formazione di nuovi Stati nell'Europa centro-orientale e sud-orientale sulla base del principio di nazionalità. A tale schieramento appartenevano l'influente giornalista del "Times" Henry Wickham Steed e lo storico scozzese Robert Seton Watson. Ambedue erano considerati in Gran Bretagna come i maggiori esperti per l'Austria-Ungheria. Infatti, entrambi avevano trascorso molti anni nella Monarchia asburgica, avevano scritto delle opere sui suoi problemi e si erano impegnati a favore dei diritti dei gruppi nazionali che costituivano il complesso mosaico dell'impero plurinazionale.

Robert Seton Watson si era occupato soprattutto della situazione degli Slavi in Ungheria. Tra gli Slavi dell'Impero asburgico lo storico scozzese godeva di grandissima popolarità, cosa di cui andava molto fiero. In una lettera allo zio George Seton, descrivendo i festeggiamenti che avevano accompagnato una sua visita a Dubrovnik nel 1912, Robert Seton Watson rappresentava se stesso come l'artefice dell'unità dei Croati e Serbi in Dalmazia e riferiva deliziato che la banda incaricata di dargli il benvenuto aveva suonato prima l'inno croato e poi quello serbo, aggiungendo che ciò era come se a Belfast una banda orangista avesse suonato inni nazionalisti irlandesi.

Wickham Steed, corrispondente estero del "Times" per l'Austria-Ungheria, aveva un carattere più posato. Prima dello scoppio della Guerra mondiale era stato favorevole a una riforma in senso federale dello Stato asburgico. Nel suo best-seller "The Habsburg Monarchy" aveva ribadito che l'Austria partecipava a pieno diritto alla comunità degli stati europei e che le sue crisi interne erano crisi di crescita e non crisi che ne preannunciassero la dissoluzione.

Addio Austria-Ungheria

La trasformazione dei due intellettuali britannici in fautori della distruzione dello Stato asburgico era dovuta allo scoppio del conflitto: in seguito ad esso, infatti, la possibilità della distruzione dell'Austria-Ungheria si era fatta meno remota e, anzi, era diventata una delle scelte praticabili per la riconfigurazione dello scenario europeo. Intanto, nel 1915, si erano costituiti a Londra due comitati in esilio, con l'obiettivo di operare per la costituzione di uno stato cecoslovacco e, rispettivamente, jugoslavo.

Soprattutto Wickham Steed considerava da sempre l'Austria-Ungheria come un satellite della Germania nell'Europa centro-orientale. In tale giudizio egli si trovava isolato nell'elite politco-diplomatica britannica. Tuttavia egli poté contare da sempre sull'appoggio di Alfred Harmsworth (il futuro Lord Northcliffe), proprietario di un impero della carta stampata, tra cui si annoverava anche il "Times". Durante la crisi del luglio 1914, antecedente allo scoppio della Guerra mondiale, il "Times" fu uno dei pochi quotidiani britannici che si impegnò incondizionatamente per la partecipazione inglese alla guerra.

L'idea cecoslovacca e jugoslava

Wickham Steed e Robert Seton Watson condividevano la visione della creazione di uno stato cecoslovacco e, rispettivamente, jugoslavo. Quest'ultimo avrebbe dovuto formarsi tramite l'unione delle provincie slavo-meridionali della Monarchia asburgica con la Serbia. Tali posizioni godevano però di scarso credito almeno per tutta la prima metà del 1917. È vero che a Londra, come già accennato, si erano formati il comitato ceco e quello jugoslavo. Tuttavia, ambedue potevano contare su pochissimi aderenti, che, all'inizio, rappresentano solo se stessi. Né il governo britannico, né il Foreign Office li prendevano molto sul serio, nonostante i loro sforzi disperati di farsi ricevere da ministri e sottosegretari per perorare la loro causa. Secondo Leo Valiani, il comitato ceco in esilio non contava, al momento della propria fondazione, più di quindici aderenti. Grazie ai buoni uffici di Seton Watson, il suo rappresentante più influente, il professor Thomas Garrigue Masaryk, ottenne una cattedra alla "School of Slavonic and East European Studies", presso il King's College di Londra.

Ancora più difficile era la situazione del Comitato jugoslavo. Il governo serbo, a cominciare dal suo popolare primo ministro Nikola Pasic, era tutt'altro che entusiasta dell'idea jugoslava. Gli obiettivi serbi, sostenuti dalle potenze dell'Intesa, riguardavano la Bosnia, la Backa e il Banato occidentale, tutti territori con una consistente presenza di popolazione slavo-ortodossa. Inoltre, Pasic era interessato ad ingrandire il possesso serbo in Macedonia a spese della Bulgaria e di assicurarsi il controllo del porto di Salonicco. Poiché anche in Dalmazia una parte della popolazione era di fede ortodossa, il governo serbo aveva protestato contro l'attribuzione all'Italia di una parte di questa regione, prevista dal Patto di Londra. Non a torto Pasic temeva che l'unione di alcuni milioni di Croati e Sloveni di fede cattolica avrebbe messo in crisi la struttura centralista del Regno di Serbia e che le richieste di una riforma federale dello Stato e della concessione dell'autonomia ai cittadini non serbi si sarebbero fatte assai pressanti. Ciò era proprio quello che egli intendeva evitare ad ogni costo.

La posizione dell'Italia

L'Italia era entrata in guerra il 24 maggio 1915 al fianco delle potenze dell'Intesa, sebbene fosse stata per molti anni un'alleata degli Imperi centrali. La decisione dell'"intervento" fu supportata da un'eterogenea alleanza di forze parlamentari ed extra-parlamentari, che perseguivano interessi in parte diversi. L'obiettivo dei liberali moderati e dei nazionalisti era di garantire all'Italia uno status incontestabile di "grande potenza". Ciò sarebbe dovuto avvenire attraverso il conseguimento del pieno controllo dell'Adriatico. Il Patto di Londra prevedeva, per l'Italia, a nord il confine al Brennero e a oriente l'attribuzione del Goriziano, di Trieste e dell'Istria, nonché di una parte della Dalmazia. Inoltre l'Italia avrebbe dovuto ricevere il protettorato su una parte dell'Albania, la conferma dei suoi possessi nel Dodecaneso, una sfera d'influenza in Asia minore e approfittare della spartizione delle colonie tedesche.

Gli interventisti democratici, come Gaetano Salvemini e Leonida Bissolati, consideravano la Guerra mondiale come ultima guerra del Risorgimento. Questi simpatizzavano fin dall'inizio con l'idea della distruzione dell'Impero asburgico, vedevano di buon occhio la creazione di uno Stato jugoslavo a struttura federale e si impegnavano per l'annessione all'Italia solo di quei territori in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Essi erano gli interlocutori ideali di Wickham Steed e Seton Watson, nonché del Comitato jugoslavo. Ma il governo italiano, rappresentato da Antonio Salandra come Primo ministro e Sydney Sonnino come ministro degli Esteri, operava sulla base dell'idea tradizionale della politica di potenza. Secondo la loro concezione, un'Austria indebolita avrebbe dovuto sopravvivere anche dopo la fine della guerra. Su posizioni analoghe si trovava, allora, anche Luigi Albertini, proprietario ed editore del "Corriere della Sera". Per l'intervento dell'Italia in guerra il "Corriere della Sera" ebbe un ruolo altrettanto importante del "Times" in Gran Bretagna. Luigi Albertini conosceva personalmente il proprietario del "Times", Alfred Harmsworth, mentre Wickham Steed aveva rapporti personali sia con Albertini, che con il ministro degli Esteri Sydney Sonnino.

La maggior parte dei fautori del "Delenda Austria!" non ricoprivano cariche politiche ufficiali. Tra i britannici andrebbero ricordati ancora l'archeologo Arthur Evans e gli storici Lewis Namier e Arnold Toynbee. All'idea della distruzione dell'Austria era indissolubilmente legato l'idea della formazione di due nuovi Stati: la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. In breve tempo si unirono quindi al circolo britannico che gravitava intorno a Wickham Steed anche il professor Thomas Masaryk e i politici croati Ante Trumbic e Franjo Supilo assieme a pochi loro sodali. Questo circolo ristretto si trovò così a rappresentare, fin dallo scoppio della guerra, la volontà di indipendenza delle "nazionalità oppresse" dell'Impero asburgico.

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