Dik Dik, una storia in musica lunga 50 anni

I tre membri fondatori Pietruccio, Lallo (Giancarlo Sbriziolo) e Pepe (Erminio Salvaderi) in concerto questa sera a Monfalcone
Mezzo secolo vissuto "Sognando la California". I Dik Dik festeggiano 50 anni di carriera con un doppio cd contenente anche alcuni inediti, oltre alla rilettura dei brani storici. Li ripercorreranno in un concerto a ingresso libero a cura del Comune di Monfalcone in programma questa sera alle 21 in piazza della Repubblica nell'ambito della tradizionale Festa del vino e Terre di magici sapori.


L'antilope africana, a distanza di cinque decadi, corre ancora forte con i tre membri fondatori, Pietruccio, Lallo (Giancarlo Sbriziolo) e Pepe (Erminio Salvaderi). «Questa sera – anticipa Pietruccio Montalbetti - suoneremo le nostre canzoni più famose, infarcite con aneddoti su cosa significano e perché sono state scritte. In due ore particolarmente intense descriviamo anche il periodo in cui sono nate: un valore aggiunto a un concerto teatrale. Iniziamo sempre con “Uno in più”, che rappresenta il movimento della linea verde, cioè rinnovamento e speranza. Introducendo “L'Isola di Wight” ricordiamo cosa accadeva in quegli anni e l'assurdità della guerra in Vietnam. Ci saranno poi "Senza luce" e tutte le più significative, come “Se io fossi un falegname”. E c'è spazio anche per la poesia, per un intermezzo acustico, un omaggio a John Lennon e un finale energico. Ma pure per la "Toccata e fuga in re minore" di Bach».


Com'era Lucio Battisti?


«Il nostro è stato un grande rapporto, lo abbiamo conosciuto quando suonava in un'orchestra e ancora non era quello che sarebbe diventato. Le sue prime canzoni non erano granchè. E' vero, ci rispondeva, ho qualcosa dentro che non riesco a sviluppare. Tanti dicono di averlo scoperto, noi lo abbiamo sostenuto. Chi ha scoperto Battisti è stato lui stesso. Nella storia c'è un prima e un dopo Cristo, nell'Italia musicale c'è il prima e dopo Battisti».


Da chi è composto oggi il vostro pubblico?


«Ai nostri concerti arrivano molti giovani, dai ventenni fino ai cinquantenni, che nascevano mentre iniziavamo la carriera. Abbiamo una cultura di 50 anni di musica, ci riteniamo la memoria storica di quell'epoca e cerchiamo di rendere partecipe chi ci ascolta. Tra i tanti complessi di allora, siamo l'unico ancora attivo e lucido: ci chiamavano gli impiegati della canzone perché andavamo in controtendenza, vestivamo eleganti e non abbiamo mai fatto uso di droga alcol. Non siamo mai caduti nella trappola: il rock è dentro di te».


Avete pubblicato un nuovo album.


«“50 e il sogno continua” è composto da due cd: uno con le nostre hit risuonate e due inediti e un secondo con band attuali come Ridillo o Tiromancino che cantano alla loro maniera le nostre canzoni. Il pezzo forte è “Sulla nuvola”, ispirata a una frase del filosofo-poeta libanese Kahlil Gibran che dice che se fossi così in alto non vedresti i confini e non noteresti il colore della pelle. Non è politica, ma osservazione della realtà: il crescente razzismo,l'indifferenza assoluta verso il prossimo».


Molti dei vostri successi sono cover.


«Eravamo costretti a farle, mentre Inghilterra e Stati Uniti avevano un serbatoio R&B, country e folk, la musica italiana era quella napoletana: è la più bella che esiste, ma quelli erano gli anni in cui nasceva il beat. La musica che ascoltavamo su Radio Lussemburgo aveva una forza incredibile: l'abbiamo portata in Italia traducendola. Noi e tanti altri come l'Equipe 84 abbiamo creato un modo di essere. Rispetto agli altri abbiamo un record: più primi posti in classifica, 9. Siamo stati fortunati, ma anche accorti nella scelta delle canzoni».


E la musica italiana di oggi?


«Non mi convince. Viviamo nella società dell'apparire e non essere. Ho molti dubbi sui talent: ci sono molti ragazzi bravi, più preparati di quelli della nostra generazione, ma di musica in Italia non si vive, diventi famoso per tre mesi e poi arriva un altro e si dimenticano di te. Sa quanti finiscono in psicanalisi? Magari tre o quattro talenti vengono fuori, ma sono pochi rispetto alle aspettative».


Un consiglio ai giovani?


«Suonate, ma studiate, imparate un mestiere. Ci sono musicisti pazzeschi che però suonano troppe note: non è questione di tecnica, ma di gusto e di cuore. Un esempio? "My sweet lord" di George Harrison: sono solo tre note, ma...».


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