Dietro il caso Moro quarant’anni di verità indicibili

«Una notizia che ha dell’incredibile…» gracchiavano le radio portando nelle case degli italiani ancora intrise dell’aroma del caffè l’annuncio che le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e ucciso la sua scorta. Inizia così, alle ore 9.02 di quel 16 marzo 1978, il vero nodo dell'Italia repubblicana, il punto di inciampo della nostra storia recente.
Cinque processi, svariate commissioni parlamentari di inchiesta - l'ultima ha concluso i suoi lavori nel dicembre 2017 – recentissime ricostruzioni in 3d, indagini dei Ris condotte con le nuove tecnologie. E ancora inchieste televisive, film, libri. Sui giorni di Moro, rapimento, prigionia e morte, è stato prodotto un fiume ininterrotto di documenti, che non poteva non arricchirsi ulteriormente in occasione dei quarant’anni dalla vicenda.
E se, come ha scritto Gianni Oliva in “Il caso Moro” (Capricorno, pagg. 165, da oggi nelle edicole con Il Piccolo al prezzo di euro 9,90 più quello del quotidiano), la ricostruzione della magistratura è ad oggi il riferimento più attendibile, c’è chi come il giornalista Giovanni Fasanella non si accontenta e vuole andare più a fondo e ricomporre il 'Puzzle Moro' (Chiarelettere, pagg. 358, euro 17,60). L’autore si propone di restituire alla vicenda la sua complessità e, consultando fonti archivistiche e documenti inediti degli archivi di stato britannici, giunge alla conclusione che i brigatisti furono solo degli “utili idioti in avvenimenti più grandi di loro”. L'assassinio di Moro, è la tesi di Fasanella, fu un vero e proprio atto di guerra contro l'Italia commesso anche da parte di amici e alleati, un attacco alle sue libertà portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne.
Se non proprio della verità, almeno di ‘Un atomo di verità’ (Feltrinelli, pagg. 270, euro 18,00) si accontenterebbe Marco Damilano che, con l'aiuto delle carte personali di Moro, in gran parte conservate nell'archivio privato di Sergio Flamigni e rimaste inedite, torna a quell'istante buio, per mettere in luce come le conseguenze di quel dramma arrivino fino a noi. Per il direttore dell’Espresso dopo via Fani comincia la lunga fine della Prima Repubblica: attraverso dissoluzione della Dc, la morte di Berlinguer, la caduta del Muro, Tangentopoli e la latitanza di Craxi in Tunisia, fino all'ultima stagione, gli anni di Berlusconi, Grillo e Renzi protagonisti di una politica che da orizzonte di senso e di speranza si è fatta narcisismo e nichilismo, cedendo alla paura e alla rabbia.
Un versante che in questi anni non era stato ancora percorso in modo unitario riguarda il ruolo svolto dalla criminalità organizzata durante i cinquantacinque giorni del rapimento. Lo fa adesso Simona Zecchi, giornalista di Euronews, che ricostruisce in ‘La criminalità servente nel caso Moro’ (La Nave di Teseo, pagg. 294, euro 19) una presenza da sempre accennata ma mai chiarita, nascosta tra carte giudiziarie e cronache sommerse dal tempo, dall’incuria e dall’omissione. La ’Ndrangheta calabrese, all’ombra del clamore di Cosa Nostra, aveva scalato, sostiene Zecchi, i gradi del potere criminale trovandosi a giocare nell’affaire Moro su più tavoli, con le istituzioni, i partiti e i terroristi. Una criminalità servente, al servizio cioè di altre strutture di potere il cui destino sembra legato a doppio filo a quello della malavita organizzata.
Ndrangheta, politici, magistrati, terroristi: sul caso Moro hanno parlato e si è parlato di tutti, mancava qualcuno che ricostruisse le vite dei cinque uomini della scorta. Lo fa adesso Filippo Boni, in ‘Gli eroi di via Fani’, prefazione Mario Calabresi (Longanesi, pagg. 298, euro 18,80) e colma una grossa lacuna, raccontando le vite e le storie familiari dei cinque agenti che pagarono con la vita la loro fedeltà allo statista democristiano, frantumando quella barriera di silenzio che per pudore dei figli e dei parenti o per colpevole disinteresse, si era alzata attorno a loro.
Le indagini e le interpretazioni che in questi quarant’anni si sono affollate attorno al caso Moro hanno dilatato la matassa al punto che ogni filo sembra dividersi in altri capi. Ma forse il quadro d’insieme affiorava già nelle parole dello storico Silvio Lanaro quando scrisse che «non fu fatto il possibile per salvare la vita di Moro». E ancora prima, a botta caldissima, nell’autunno del 1978, Leonardo Sciascia aveva aperto il suo ‘Affaire Moro’ con una citazione di Elias Canetti: «la frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo