Diabolik in azione a Trieste: la città diventa Clerville nel film dei Manetti Bros

Arriva nella sale giovedì l’ultimo lavoro dei fratelli registi Marco e Antonio che ripercorrono le vicende del celebre eroe dei fumetti creato da Angela e Luciana Giussani

Paolo Lughi

TRIESTE “Wrooom”.“Swiisss”. Sembra a momenti di vederle sullo schermo le scritte onomatopeiche che, sulla carta, accompagnavano inseguimenti in auto e lanci di pugnali nei mitici albi di “Diabolik”. L’attesissimo film dei Manetti Bros. (rimandato di un anno per la pandemia e da giovedì nelle sale) è innanzitutto un amorevole omaggio - tutto ricostruzione d’epoca e fumettofilia – al personaggio creato quasi sessant’anni anni fa dalle sorelle milanesi Angela e Luciana Giussani (è del novembre del 1962 la prima avventura, “Il re del terrore”).

E il film è anche una nuova, coraggiosa sfida dei Manetti (dopo il fantascientifico “L’arrivo di Wang” e il camorra-musical “Ammore e malavita”) per portare in modo “autoriale” al grande pubblico il loro culto per il cinema italiano di genere e in particolare per quello fantastico.

Una strada difficile già intrapresa negli ultimi anni con risultati alterni anche da Salvatores con il dittico de “Il ragazzo invisibile”, e da Gabriele Mainetti con “Lo chiamavano Jeeg Robot” e il recente “Freaks Out”.

Ma, per il pubblico triestino, questo “Diabolik” riveste un interesse particolare, perché in una grande uscita natalizia Trieste si conferma location quanto mai duttile e fotogenica per dar corpo a perfette città immaginarie, proseguendo l’intrigante tradizione spionistica e giallo-nera che va dagli 007 all’italiana degli anni ’60, fino alle serie tv del Commissario Laurenti e de “La porta rossa”.

Notturna come nell’incipit, dove dalla Banca di Clerville si scappa per Porto Vecchio, o solare come nell’epilogo, dove la Stazione Marittima si trasforma nella Banca di Ghenf, Trieste qui è bellissima sia per la varietà dei paesaggi - marini o carsici con vista - sia per il fascino modernista, candido e un po’ astratto, di edifici cittadini e ville sulla costiera, capaci di suggerire uno scenario indefinito, “da film” o “da fumetto” appunto.

Ebbene, dalla Strada Napoleonica a quella del Cacciatore, dalle Rive al caveau della Fondazione CRTrieste, sembra proprio che siamo a Clerville, l’immaginario e lussuoso Stato marittimo franco-americano inventato dalle sorelle Giussani per le avventure di Diabolik.

Il film parte dunque lanciato, con l’iconico criminale (Luca Marinelli) che fugge in Jaguar nera dopo un colpo alla Banca di Clerville e un rocambolesco inseguimento urbano (le vie sono quelle di Milano, Trieste e Bologna) da parte del “dannato” ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) fino alla casa-rifugio (immaginata nei sotterranei di Portopiccolo). La vicenda è tratta dallo storico albo numero tre “L’arresto di Diabolik”, quando il cinico ladro - ancora sposato con la mora Elisabeth (Serena Rossi), che lo attende a casa ignara della sua doppia identità – ha un inaspettato colpo di fulmine per la bionda ereditiera Eva Kant (Miriam Leone).

È il diamante rosa di lei che li fa incontrare in grand hotel di montagna e di città (Courmayeur e Milano), ma un imprevisto fa catturare Diabolik da Ginko ed Eva è l’unica che può aiutarlo.

Tutta questa prima parte è dedicata dai Manetti alla definizione di ambienti e caratteri. Va premesso che quelli dei due fratelli romani sono in genere film-idea o film-gioco, basati su sfide o scommesse formali, come “L’arrivo di Wang” era un episodio espanso de “Ai confini della realtà”, e “Ammore e malavita” un incrocio parodistico fra sceneggiata e mafia-movie.

“Diabolik” si caratterizza invece per la cosciente applicazione degli stereotipi degli albi disegnati, traducendo rigorosamente l’ottica del fumetto sul grande schermo. La concentrazione di cliché e la patina vintage e pop sono palesi, e la storia, in sé, diventa un pretesto per mettere in scena una dopo l’altra sequenze codificate – il bunker sotterraneo, la preparazione dei furti, le fughe - utilizzando gli attori (fisicamente perfetti per i ruoli) quasi come sagome bidimensionali, belli, seriosi e laconici.

Oltretutto non è facile recuperare quella “pensosità” di Eva e Diabolik, espressa sulle pagine dalle “nuvolette” collegate con le “bollicine” ai personaggi originali. Così la fedeltà alla più immediata semplicità del fumetto toglie naturalezza ai dialoghi, il ritmo strada facendo perde qualche colpo e nella prima parte l’operazione, nonostante l’appassionato esercizio di stile, risulta un po’ freddina.

Ma “Diabolik” è un film che cresce, diventando “tridimensionale” e “manettiano” - quindi più personale e imprevedibile - da quando Eva aiuta Diabolik a evadere e i due - più umanizzati e con l’aiuto delle tipiche maschere di gomma (efficace il trucco alla “Mission Impossible”) - pianificano un supercolpo in un inaccessibile caveau subacqueo. Qui l’uso citazionista dello “split screen” (schermo diviso) anni ’60, che allude al montaggio delle vignette, infonde movimento allo sviluppo della storia.

Seppure non realistico e pre-pandemico, anche “Diabolik”, come tutti i lavori dei Manetti, parla comunque dell’oggi. Mito degli anni della Guerra fredda con la paura della fine del mondo - come gli altri film-caso di questo autunno, “007” e “Dune” - “Diabolik” riverbera nei suoi personaggi in maniera sinistramente ironica il nostro attuale “modus vivendi”.

Lui ed Eva vivono in (splendido) isolamento, accumulano beni materiali in una casa-rifugio e tutti devono stare in guardia da chi porta una maschera (ai tempi nostri, una mascherina).

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