Dell’Acqua e Cirri sulla panchina. Ritorna la vera storia di Basaglia

Dopo la tournée di successo in scena da oggi alla Sala Bartoli lo spettacolo diretto da Erika Rossi e prodotto dallo Stabile sull’«impensabile liberazione»

TRIESTE. Trieste e poi Milano, Torino, Ferrara, Udine, Codroipo, Cervignano tutti i teatri della tournée hanno accolto con il tutto esaurito lo spettacolo “(Tra parentesi) la vera storia di un’impensabile liberazione”, concepito, scritto e portato in scena da Massimo Cirri e Peppe Dell’Acqua: due figure che possiedono un punto di vista privilegiato sul tema della Legge Basaglia. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e diretto da Erika Rossi, ha iniziato la sua avventura a ottobre alla Sala Bartoli e la richiesta e l’attenzione suscitate sono state tali che è sembrato naturale riproporlo in chiusura di stagione.

Va in scena da oggi al 24 maggio sempre alle 21, con una sospensione nelle serate del 18 e 19 maggio. «Quando il direttore dello Stabile, Franco Però, ha proposto a Massimo Cirri, conduttore radiofonico, psicologo e amico mio carissimo, a Erika Rossi, giovane regista triestina e a me di fare qualcosa in occasione dei 40 anni della legge 180, ho pensato che scherzasse» ricorda ora Peppe Dell’Acqua. «Per più di un mese ho tenuto lontano anche il pensiero di quell’improbabile avventura. Temevo che, specie a Trieste, lo spettacolo potesse avere scarsa partecipazione dal momento che i triestini sanno già tutto e poi temevo potesse far riemergere contrasti feroci. Erika e Massimo, invece, erano entusiasti. Durante l’estate abbiamo cominciato a pensare a cosa e come raccontare. Il tema avrebbe dovuto essere: Basaglia non solo chiude i manicomi, restituisce diritto, dignità, soggettività. Bisognava raccontare la vera storia. “Messa tra parentesi la malattia…”. L’ingresso di Basaglia a Gorizia l'inizio del canovaccio».

Da qui si sviluppa lo spettacolo: «In scena una panchina rossa, Massimo e io a conversare, alle spalle le immagini degli uomini e delle donne che faticosamente procedono verso la loro liberazione. Come si capisce è stato per me un andare indietro. Le storie che ogni sera raccontavamo muovevano passioni, interrogativi memoria di sconfitte brucianti e conquiste gioiose. Emozioni che non mi hanno mai lasciato. Ci sentivamo, noi ragazzi venuti da mezz’Italia, nel cuore di una storia impensabile che accadeva davanti ai nostri occhi. Contribuire allo smontamento della grande e secolare istituzione manicomiale era come vivere nell’urgenza di un capovolgimento epocale. Affrontavamo rischi, amori, conflitti nella vertigine di orizzonti sconosciuti».

«Ogni sera a teatro ho raccontato di me e delle cose meravigliose e ruvide che accadevano intorno» conclude Dell’Acqua. «Ho rivissuto i dieci anni forse più importanti della mia vita. Il successo è stato ancora più inaspettato. Le persone manifestavano la loro partecipazione, ci facevano avvertire la loro emozione. Gli applausi a scena aperta ci stupivano e mettevano ancora di più in crisi la mia fragile tenuta. Credo che a Trieste, come negli altri teatri, il nostro narrare ha fatto sì che le persone potessero finalmente appropriarsi di una storia che ha cambiato il modo di vedere l’altro. Di interrogarsi sulla natura della malattia mentale. Cosa di meglio potevo attendermi». —


 

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