Dario Penne: “Ho un vecchio amico per cena”. Così Hannibal Lecter mi cambiò la vita

Ha dato voce più di cinquanta volte ad Anthony Hopkins (e una sola l’ha tradito), poi a Clint Eastwood, Tommy Lee Jones, Michael Caine. «Faccio ancora i provini»
Paolo Lughi
Dario Penne fotografato da Sergio Bertani
Dario Penne fotografato da Sergio Bertani

TRIESTE «L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori», diceva Ennio Flaiano. E infatti nell’ambiente del cinema si è sempre detto: i doppiatori italiani sono i migliori al mondo. Lo affermava anche Stanley Kubrick: valorizzano i film a cui prestano la voce. E in questa nostra straordinaria fabbrica di corde vocali, officina di esperti attori nell’ombra che regalano l’anima anche a chi non sa recitare, un vero protagonista da decenni è il triestino Dario Penne.

È sua la voce italiana, profonda e inquietante, del mitico Hannibal Lecter (Anthony Hopkins) nel “Silenzio degli innocenti” (“Ho un vecchio amico per cena…”), ma anche quella del carismatico Doc (Christopher Lloyd) in “Ritorno al futuro”, e sono sue tante altre voci del gotha dei divi di Hollywood. Ha cominciato da Strehler e non si è fermato più. Così ci siamo fatti raccontare la sua storia.

Quando si è appassionato alla recitazione?

Fin da piccolissimo. Poi a diciott’anni mi sono iscritto alla scuola del Teatro Stabile di Trieste, che allora, parlo degli anni ’50, era di fronte al Liceo Dante. Il mio primo maestro è stato Ugo Amodeo, la voce che ha accompagnato Trieste dagli anni ’30 in poi attraverso la radio, il teatro, le pubbliche letture, col suo dialetto esaltato e reinventato. Anch’io all’epoca ho fatto tantissima radio, soprattutto per la storica trasmissione El Campanon. Poi, dopo tante particine al Teatro Stabile, a 25 anni ho deciso di andare a Milano da Giorgio Strehler. Con lui, ad esempio, ho lavorato nel ’66 in ‘Duecentomila e uno’ di Salvato Cappelli. Strehler era un vero genio, per i suoi spettacoli gli applausi a scena aperta erano la regola.

Come è arrivato al doppiaggio cinematografico?

Dopo un paio d’anni a Milano, ho partecipato alle selezioni di giovani attori di prosa che la Rai faceva per le sue sedi regionali. Mi hanno proposto Firenze, che era vicina a Roma, e infatti diversi amici attori che lavoravano anche nel cinema insistevano: ‘Dai, vieni a Roma a fare il doppiaggio!’. All’inizio non l’avevo preso in considerazione, volevo fare teatro. Però a un certo punto ho cominciato, mi sono trasferito nella capitale nel fatidico ’68 e come doppiatore non ho smesso più.

Ha conosciuto i mostri sacri dei tempi eroici del doppiaggio, Gualtiero De Angelis (Cary Grant, James Stewart) o Pino Locchi (Sean Connery, Tony Curtis)?

Certamente, li ho conosciuti quasi tutti, anche il leggendario Emilio Cigoli (John Wayne, Jean Gabin), con cui ho lavorato quattro o cinque volte. Ma quando ho iniziato io, il più bravo a mio avviso era Peppino Rinaldi, che prestava la voce a Marlon Brando, Paul Newman, Jack Lemmon.

Oltre a imparare dai grandi, cosa ci vuole per essere un bravo doppiatore?

L’unica scuola è il teatro, soltanto il teatro, che avevo praticato per dieci anni prima di iniziare il doppiaggio. In questo mestiere bisogna mettere al servizio del microfono le tecniche della vera recitazione. Del resto ho continuato ad alternare per anni sia il teatro, sia il doppiaggio. Sono andato in scena al Guicciardini a Firenze e alla Contrada a Trieste dove ho lavorato con Francesco Macedonio, che considero uno dei miei maestri, un regista bravissimo. E ho recitato agli inizi anche in tv, nei ‘Promessi sposi’ di Sandro Bolchi, e poi al cinema nella ‘Frontiera’ di Franco Giraldi.

Riccardo Cucciolla l’ha definita infatti “il più attore fra i doppiatori”. E lei quali interpreti apprezza di più?

Ho dato la voce ad alcuni grandissimi, da Clint Eastwood (‘Nel centro del mirino’) a Tommy Lee Jones (‘Il fuggitivo’, ‘Men in Black’), da Michael Caine (‘Il cavaliere oscuro’) a Christopher Lloyd (‘Ritorno al futuro’). Mi sono divertito moltissimo a doppiare Lloyd per la sua recitazione folle. Naturalmente più di tutti sono legato a Anthony Hopkins. Il ruolo di Hannibal Lecter ha rappresentato una svolta per lui, ma anche per me. E Hopkins ha apprezzato molto il mio lavoro. Fra questi divi, è l’unico che ho conosciuto personalmente. Quando sono andato a trovarlo sul set di ‘Titus’ a Roma, lui ha fermato le riprese per venire ad abbracciarmi. Ho doppiato Hopkins più di 50 volte, anche se una volta l’ho… tradito. È stato quando Manlio De Angelis, direttore del doppiaggio del ‘Dracula’ di Coppola, mi ha chiesto di scegliere fra l’interpretazione di Hopkins (Van Helsing) e quella di Gary Oldman (Dracula). E io ho scelto Oldman. Proprio perché dovevo scegliere, in quella occasione ho potuto vedere in anticipo il film da doppiare.

Vuole dire che il doppiaggio avviene “al buio”, mentre si vede il film per la prima volta?

Ora è così, si fa tutto di corsa. Nell’oscurità delle sale di registrazione bisogna avere mestiere, sensibilità e colpo d’occhio, un fatto di acceleratore-freno per adattare le battute e per rendere al volo in italiano le emozioni e i sentimenti del film. Paradossalmente, quando gli attori sono bravi è più facile doppiarli, perché parlano anche col corpo. Gli attori cani, invece, ti mandano fuori fase per un’espressione sbagliata! Ma bisogna fidarsi del direttore del doppiaggio, che quando è bravo abbina sempre la voce giusta a ogni interprete. Gli americani, però, esigono spesso i provini. Io, ad esempio, ho vinto quello per il giudice Morton in ‘Roger Rabbitt’. E ancora adesso devo fare dei provini. Come diceva Eduardo, gli esami non finiscono mai. —

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