D’Annunzio creò riti e miti dell’impresa di Fiume come fosse uno spettacolo

la recensione
Scrivere un dramma e rappresentarlo sul palcoscenico contemporaneo della vita, della storia. Non a teatro, ma sui luoghi e con i personaggi che si muovono e vivono le emozioni che l’autore “scrive” e interpreta lui stesso come regista e abile manipolatore di anime. A poterlo fare, e lo fece, era solo il Vate per antonomasia ossia Gabriele D’Annunzio. È l’impresa di Ronchi dei Legionari, della marcia su Fiume e della presa della città. A guidarci in questa lettura è il volume “D’Annunzio e il mito di Fiume. Riti, simboli, narrazioni” (ed. Pacini, pagg. 325, euro 21) di Federico Carlo Simonelli dell’Università di Urbino Carlo Bo. Una lettura che si trasforma in un vero e proprio romanzo dove la partitura del Vate viene smascherata e sviscerata attraverso un’attenta e precisa analisi semiotica dei discorsi, della gesta, dei gesti (tutto era preparato con cura) di Gabriele D’Annunzio e della sua breve guida della città, per quei tempi, simbolo di Fiume.
La volontà di azione e di partecipazione alla vita pubblica del Vate si espresse nella sua opera attraverso una «veste estetizzante, tutta “letteraria”, tutta intenta a trasfigurare - come scrive Giuseppe Petronio nella sua “Attività letteraria in Italia” - e mitizzare personaggi, ambienti e storie», caratteristica che «contribuiva a colpire l’immaginazione - così ancora Petronio - e il sentimento di lettori medio e piccolo-borghesi, ai quali quella “poesia” offriva una specie di risarcimento del loro meschino trantran quotidiano». E con l’impresa di Fiume D’Annunzio offrì a tanti di quei medio e piccolo-borghesi l’occasione di ergersi a eroi, a patrioti a unici difensori di quell’italianità che lo stesso governo di Roma esitava - in un dopoguerra convulso, quello della «vittoria mutilata», come la definì l’epopea fascista - a riconoscere.
La “scrittura” del dramma in diretta è chiaro al Vate al punto che «resoconti e proclami - scrive Simonelli - dovranno comporre, giorno per giorno, il poema della “redenzione” di Fiume e della nazione rinnovata dalla guerra». E così la storia dell’occupazione di Fiume si intreccia con quella più grande degli equilibri geopolitici che dovevano uscire dal primo conflitto mondiale, equilibri che si basarono su geometrie instabili ed errate nei calcoli tanto da permettere la nascita del nazismo e del fascismo con tutte le conseguenze che ben conosciamo.
Del resto D’Annunzio fu un grande inventore di miti, dall’estetismo intriso di sensualità al patriottismo e su su fino al superomismo di nietzschiana lettura. Miti che ritroviamo tutti nell’impresa di Fiume così come “narrata” da Simonelli, come, ad esempio, nella maniacale cura delle divise indossate sopra una camicia rigorosamente bianca e con cravatte di seta o nel costante richiamo del Vate nei suoi proclami ai divini sentieri dell’immortalità che attraverso Fiume conducevano al Pantheon degli eroi italiani.
«Il poema dannunziano - precisa l’autore - si adattò a diverse identità politiche e umane, ma non riuscì ad annullarle», cossichè l’impresa fiumana «offrì un patrimonio di esperienze che stimolarono conversioni, iniziazioni, conflitti tra differenti concezioni della nazione, della pace, della società». E il drammaturgo lirico, abile demiurgo di spiriti, «con la fine del poema», riesce a fare in modo che «i singoli tragitti di vita» riprendano «il loro corso». Dunque «per tutti Fiume rimase la città del mito, del proprio mito».
L’arte era per D’Annunzio un’attività suprema che doveva trasmettere agli uomini la bellezza così come l’energia e la potenza per trasfigurarsi infine nel culto della forza, della violenza, della guerra. E l’impresa di Fiume fu tutto questo, scritta e diretta dal vivo dove anche la storia può diventare teatro. —
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