Danilo De Marco inviato di se stesso in “Defigurazione”

La nuova retrospettiva del fotografo indipendente apre a Pordenone a cura di Arturo Carlo Quintavalle  
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A cavallo degli anni Ottanta e Novanta a Parigi, dove mi ero spostato, incontro un libro di Gilles Deleuze dal titolo Logica della sensazione, saggio sull’opera di Francis Bacon. Dopo averlo letto e riletto, massacrato di segnacci e appunti, cancellature visibili, ripensamenti, sottolineature, tentativi di non tornarci più su… per poi acquistarne anche la pubblicazione italiana, germina in me una sorta di bonaria ossessione per il termine figura.

Ogni volta che qualcuno indicava una mia fotografia che poteva rientrare nella sfera della ritrattistica esclamando «… ma guarda che bel ritratto!», sbottavo, tra il divertito e il contrariato, cercando di condurre il malcapitato verso il significato, il senso, che io davo al termine, che preferivo, di figura. Sicuramente infastidito anche dal chiaro rimando al ritratto fotografico ottocentesco, «più fedele della pittura» secondo Baudelaire, che la nuova classe borghese in ascesa economica amava farsi fare. Il ritratto fotografico, molto più realista, era oramai molto meno rischioso di quello pittorico, visto che la pittura aveva prima preso la strada dell’impressionismo, per proseguire il suo percorso nell’espressionismo e nella sperimentazione. L’aspetto straordinario dei percorsi dell’esistenza è che non si manifestano quasi mai con chiarezza. Accade che si sente pregnante la necessità di proseguire per alcuni cammini intrapresi, senza avere in verità la piena comprensione di dove si stia andando. Una sorta di cammino pieno di domande a cui mancano, nella maggior parte dei casi, necessarie e incoraggianti risposte. Come chi ha perso la via di casa e non ne ha un’altra.

Così mi sono trovato a fotografare, sempre come inviato di me stesso, partendo in viaggi solitari e con ristrettissime economie (credo che, almeno sottovoce, sia arrivato il momento di dirlo) e senza la “tutela” economica di alcuna testata giornalistica, o l’assistenza interessata di mega agenzie fotografiche. Andavo così viaggiando, accompagnato dalla mia irrequietezza, disperso nelle foreste del Messico e della Colombia, nel sertão brasiliano e tra gli indigeni del Chimborazo in Ecuador. In Turchia e Iraq tra la popolazione curda in guerra perpetua. In Sri Lanka fra la resistenza del popolo Tamil e le donne del tè. A Zanzibar tra le raccoglitrici d’alghe. In Uganda camminando assieme ai night commuters o “pendolari della notte”, bambini in fuga dai massacri e dalle violenze delle milizie.

Incontrare gli autori per me è sempre stato fondamentale per capire quanto di “coerenza”, termine pieno di rischi se non preso con cautela, ci fosse tra l’opera e il suo artefice. Il fine non è mai stato quello di realizzare una collezione di “figurine” di celebrità per poi metterle in bella esposizione con successo quasi scontato La cosa che più mi affascinava e mi affascina è riuscire a rincontrare le persone e, non senza difficoltà per non essere greve e fastidioso, frugare con l’obiettivo dove non ero riuscito la volta precedente. Così sono nate anche delle amicizie che perdurano ancora. Noi, in fondo, non siamo che la nostra propria e incessante rilettura, e in questa rilettura gli eventi non cessano di accadere e di produrre sens.

Il mio fraterno amico Mario Dondero (l’unico fotografo che ho frequentato: non parlavamo mai di fotografia perché sapevamo benissimo essere l’ultimo atto di molto altro) – uno tra i personaggi che ho “tormentato fotograficamente” assieme a Claudio Magris, Peter Handke, Predrag Matvejević, Erri De Luca, Carlos Montemayor, Álvaro Mutis, Armand Gatti, Lucio Urtubia, il partigiano Cid, per citarne solo alcuni. Certo, non mi era mai sorta l’idea che un giorno questi percorsi che hanno avuto un procedere a bruschi balzi, come dei salti quantici tra temi e proposizioni – bruschi balzi che vanno dal campesino messicano alla partera (levatrice) ecuadoregna, alle chiacchiere con Peter Handke o Ernesto Sábato –, solo in apparenza scollegati tra loro, potessero coniugarsi. In fondo si tratta sempre di noi, di questo bipede terrestre, capace di incredibili atti di solidarietà e generosità, di altruistiche rinunce, di opere artistiche fantastiche, e all’opposto capace di manifestare la sostanza dell’inumano che ancora oggi accompagna la nostra esistenza.

Ma ritorniamo alla mia idea fissa di figura. Non va taciuto il debito concettuale verso quello che è stato il decostruzionismo del linguaggio intrapreso da Jacques Derrida. Decostruzione delle gerarchie, disseminazione del senso, ma anche in questo caso decostruzione della vista, del guardare. Cercare di cogliere un altro ordine di visibilità, una possibilità di vedere e sentire altrimenti.

Un corpo a corpo che sconvolge le forme e le rianima, che cerca di rimandarsi uno all’altro, uno nell’altro… di quello che accade quando accade. Si tratta così di dare una possibilità alla figura, che è l’improbabile stesso. Sguardi, gesti, comportamenti. Il rapporto con la qualità espressiva dell’immagine, il ritmo formale del suo insieme e il lato emotivo, gli elementi casuali, fortuiti. Eliminare ogni strategia, ogni possibilità per cercare di cogliere-raccogliere quel qualcosa che non è scomparso da una persona, ma che, per educazione, a volte viene allontanato dall’espressione e dai gesti della propria FIGURA. Il gioco, la ritrosia, lo stare al gioco. Perdere la ritrosia. Tutto al di fuori di un’immagine stabile.

Paul Valéry ha scritto che la sensazione è ciò che si trasmette direttamente e che in un particolare momento determina l’istinto. E l’istinto è un passaggio da una sensazione ad un’altra. La migliore delle sensazioni. Istinto è anche scattare una foto, uno scatto singolo atteso e cercato senza però l’inverosimile quanto inquietante mania dei babbei d’immortalare l’attimo fuggente e senza il bisogno di mitragliare la pellicola con trascinatori automatici e oggi con l’indice attaccato allo scatto digitale. Scatta e guarda. Scatta e getta. Perduta, forse, per sempre quella disposizione alchemica, magica “coscienza interna del tempo” che ci induce a guardare l’orizzonte combattuto del vivere in divenire, cogliendone la precarietà e la costante metamorfosi per scivolare negli abissi di una banale, illusoria, ripetitiva, smemorata orgia di immagini. Baudelaire nel suo rapporto conflittuale con la fotografia aveva ben intuito quando scriveva a proposito di Nadar: «Sono geloso nel vederlo riuscire così bene in tutto ciò che non è astratto». Baudelaire sapeva che la camera fotografica non poteva essere strumento per un’astrazione della realtà, ma piuttosto un modo per esplorare quella realtà, quel sentire colmo di linee di fuga inattese che permette di agitarne le forme e consegnarle alla durata di un tempo non immobile. Tutto si gioca nel movimento del vedere. Superfici che si toccano e si allontanano, scivolando una sull’altra come in una danza, mentre lo sguardo si fa contatto esposto alla ricchezza e alla fatica della Sensazione. Come cercare e provocare una sensazione visiva che possa essere “concatenamento”, legame di simpatia, di fantasia, di esplorazione? Simon Ings scrive: «Dilatandosi e contraendosi l’iride mette a fuoco, controlla che la luce non sia troppo forte e può rivelare anche alcuni stati dell’animo, ad esempio quando dilata la pupilla per vedere meglio un volto amato». Dilatandosi e contraendosi l’iride cerca di fissare una “figura dell’uomo” che sia evento e che contenga una disseminazione del senso e non rimanga forma morta.

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