Daniele Pecci: «Il fu Mattia Pascal? Non vivrebbe al tempo dei social»

TRIESTE Dalla tournée in giro per l'Italia arriva a Trieste domani, alle 20.30, al teatro Bobbio, “Il fu Mattia Pascal” con la regia di Guglielmo Ferro, una produzione de La Contrada. Stanco della vita che conduce, Mattia un giorno, leggendo sul giornale la notizia della sua presunta morte, afferra al volo la possibilità di cambiare vita.
A calarsi nei panni del protagonista è Daniele Pecci, accanto a lui Rosario Coppolino, Maria Rosaria Carli, Giovanni Maria Briganti, Adriano Giraldi, Diana Hobel, Marzia Postogna e Vincenzo Volo. Le repliche proseguono a Trieste fino al 23, il 24 a Maniago e il 25 a Sacile.
Pecci, quasi trent'anni di carriera. Che ricordo ha degli esordi?
«Ho un ricordo meraviglioso della mia vita. È stato un sogno, un momento magico, quasi mistico».
Si è avvicinato alla recitazione grazie a Shakespeare. Cosa l'affascina di questo drammaturgo?
«È l'autore che più di ogni altro ha saputo restituire al teatro un'essenza di uomo così come la concepiamo oggi, nelle sue varie sfaccettature e nei suoi meandri più profondi. Il teatro con Shakespeare è universale per la molteplicità dei temi trattati».
Ne “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello come ha impostato il lavoro dal punto di vista dell'adattamento?
«Il mondo pirandelliano è meraviglioso. Lui è un genio. Il lavoro che ho fatto nella scrittura è molto vicino al romanzo di Pirandello. Credo di essermi attenuto in modo fedele e puntiglioso a tutto ciò che lui ha scritto, usando le sue parole. È stato un lavoro fatto idealmente in coppia con lui».
Mattia Pascal perde il suo nome, la sua identità e inizia una nuova vita. Oggi aprendo un profilo finto sui social non è così difficile avere un'altra identità...
«Il mondo del virtuale è più piccolo e misero di quello che invece si trova a vivere Mattia Pascal, che assume un'altra identità perché vuole sfuggire dal mondo in cui è. Oggi se uno apre un profilo finto può continuare a dire di essere chi non è: c'è la separazione dello schermo. Nel caso di Mattia, il personaggio che è costretto a inventare, è fatto di carne e ossa. Ha un contatto con delle persone vere, per cui è obbligato a inventare una vita che va al di là di quella che può avere sulla rete. Se allora era impossibile cercare di vivere fuori da determinate regole sociali sotto mentite spoglie, oggi lo sarebbe ancora di più: la nostra vita è monitorata dappertutto».
Tenendo presente il clima in cui viviamo, oltre all'identità personale, forse non avere un'identità culturale diventa un problema nell'accettare nuove culture...
«L'identità culturale è un aspetto ulteriore, legato all'identità personale. Noi facciamo grande difficoltà ad accettare ciò che è diverso: tendiamo ad aver paura delle cose che non conosciamo. La crisi di identità culturale, intesa come volontà di abbracciare una cultura più vasta, è una grande risorsa».
Per il protagonista pirandelliano la rinascita avviene anche attraverso l'umorismo. Oggi l'umorismo ci può salvare?
«L'umorismo pirandelliano è la possibilità e la capacità di sorridere inizialmente di qualcosa che è profondamente drammatico. Non so se sia un elemento salvifico, ma ciò che è giunto a noi è più un'ironia, un affrontare la vita prendendoci un po' meno sul serio».
Che ruolo ha la parola?
«Centrale, lo ha sempre avuto. È lo strumento principe dell'essere umano. Come insegna Shakespeare, le parole sono fatti. L'importante è conoscere il loro significato profondo. Sono una sorta di mappa geografica per saper stare al mondo. Il mio lavoro è fatto di parole. Le amo».
A Trieste c’era già stato per la fiction “Sposami”...
«E anche durante i miei ventinove anni di tournée. Quando abbiamo girato la fiction, ci sono rimasto per 5-6 mesi di fila, dove ho vissuto però in una condizione di grande privilegio. È una città molto bella, elegante e tranquilla dove potrei vivere se non vivessi nella mia amata Roma. Sono felice di tornare a Trieste». —
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