Dalla Trieste di Svevo alle sfingi violiniste, in due volumi tutta l’opera di Leonor Fini
la recensione
Milleduecentoquarantanove quadri a olio dipinti da Leonor Fini durante la sua lunga carriera, molti dei quali vengono pubblicati per la prima volta: tutta la produzione nota dell’artista di origine triestina è finalmente raccolta in due volumi, in vendita in un elegante cofanetto cartonato. Il catalogo ragionato, impreziosito da più di mille immagini a colori, è costato otto anni di lavoro a Richard Overstreet, il fotografo e artista americano che nel 1998 ha fondato a Parigi l’Archivio Leonor Fini, e a Neil Zukerman, proprietario della galleria d’arte CFM di New York e collezionista delle opere della pittrice. Uscirà a febbraio per l’editore svizzero Scheidegger & Spiess (pp. 648, euro 350) questo importante contributo, utile per studiare e approfondire la prolifica e talentuosa Leonor Fini a venticinque anni dalla morte. L’interesse verso di lei continua a crescere a livello internazionale a fronte delle mostre che si sono alternate tra Europa e Stati Uniti e dei libri che ne ricostruiscono la biografia, e si possono perdonare quei siti web che continuano a definirla un’artista “argentina” dal momento che il luogo di nascita di Leonor nel 1907 è Buenos Aires.
La vita della futura pittrice si sposterà invece fin da subito a Trieste, città della madre Malvina Braun che, dopo aver lasciato per incompatibilità caratteriale il marito, un imprenditore italiano emigrato in Sudamerica, deciderà di crescere la figlia nella sua patria “mite e civile”. La piccola Leonor respira l’aria effervescente degli anni della Grande guerra tra le tappezzerie borghesi e i finestroni affacciati sul canale di Ponterosso, nascosta e travestita da maschietto per sfuggire ai tentativi di rapimento del padre determinato a riportarla con sé in Argentina.
Trieste è la città in cui la ragazza conosce e frequenta personaggi tra i più significativi del mondo dell’arte e della letteratura: è di casa nella villa di Italo Svevo, conoscente della madre, e tra le sue amicizie più strette si contano nomi come Arturo Nathan, Bobi Bazlen, Leo Castelli, Gillo Dorfles e Linuccia Saba. A Trieste Leonor inizia a disegnare e a dipingere e nel catalogo sono presenti i panorami e le vedute del porto che Edmondo Passauro, suo maestro per un breve periodo, la obbliga a realizzare per esercitarsi.
Ma non mancano i ritratti triestini: quelli del giudice Alberti, della pittrice Felicita Frai, di Svevo, della madre Malvina e quello più tardo di Alida Valli, sposata al cugino di Leonor Oscar De Mejo, coppia che l’artista frequenta a Roma negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Le influenze pittoriche mitteleuropee respirate nella città giuliana, insieme alle teorie psicanalitiche subito attecchite nella sua cerchia di amici, rendono i quadri della giovane artista originali e incisivi al punto che appena arrivata a Parigi, all’inizio degli anni Trenta, André Breton e compagni le diranno “sei surrealista senza saperlo”.
Il legame con Trieste rimane sempre forte, alimentato dal cordone con l’amata madre, e Leonor più di una volta ribadirà di non essere italiana ma triestina, desiderosa di ribadire la sua formazione avvenuta in quella città cosmopolita e internazionale di inizio Novecento. Il catalogo ragionato riserva molte sorprese a cominciare da un autoritratto con l’armatura in cui la pittrice si ritrae come una Giovanna d’Arco perplessa con mano sul fianco in posa interrogativa e dalla pittura murale “Sfinge con le corna e violinista” realizzata per la casa di Sforzino Sforza a Le Brusc in Provenza, oggi distrutta, ma di cui viene pubblicata una rara fotografia in bianco e nero.
Dal primo periodo parigino ecco riaffiorare una strega dai lunghi capelli neri che assomiglia molto a Leonor e che si spoglia nella sua stanza piena di scope: mentre sfila abito e corsetto si appoggia a una sedia che è lì lì per rovesciarsi; invece il quadro “L’arma bianca” presenta due fanciulle impegnate in una danza ambigua in cui gambe e braccia si intrecciano: una è seduta e cerca negli stivali della rivale qualcosa che potrebbe essere un coltello, l’altra è in piedi ed è pronta a colpire.
Tra le chicche figura una versione alternativa del famoso quadro “Le bout du monde” del 1953 intitolata “Donna nel lago”, una delle opere più note di Leonor Fini, reinterpretato da Madonna nel bellissimo video-clip di ambientazione surrealista “Bedtime Story” del 1995. Interessanti sono i fondali raffiguranti un albero popolato da scimmie e medievali scene di corte dipinti nel ’56 per il balletto “Sonatina” andato in scena al festival di Granada come anche il curioso quadro “Il lungo sonno dei fiori” degli anni Sessanta. Racconta Neil Zukerman che fu Constantin Jelenski, compagno di Leonor, a svelargli quella storia: la pittrice aveva dipinto una coppia intenta a fare sesso orale in un giardino ma l’opera sarebbe risultata scandalosa, ecco allora comparire fiori dappertutto a coprire, ma non del tutto, la scena. Destino simile per il ritratto di Paul McCartney e della moglie Linda che venne rifiutato dal committente, padre di Linda: Leonor, furiosa, ci dipinse sopra. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo