Dalla Cina all’Africa il salto di specie è il frutto della violenza umana sulla natura

il racconto
marina mander
Tre mesi fa o poco più, prima dell’emergenza mondiale, ero seduta a bere il tè a casa di Jane Goodall, a Gombe. Gombe è un piccolo parco nazionale della Tanzania, un fazzoletto di foresta protetta sul lago Tanganika diventato celebre grazie a Jane Goodall e ai suoi studi sugli scimpanzé (pan troglodytes) iniziati negli anni ‘60. Grazie a lei, ora sappiamo molte cose sui nostri antenati, alcune belle, altre meno.
La casa di Jane è nascosta sotto agli alberi di mango ma davanti c’è il lago, l’acqua è limpida, i pesciolini ti sfiorano con liquide carezze, tra i rami le scimmie giocano e bisticciano, amoreggiano e combattono, sono babbuini, o una scimmia blu, un raro colobo rosso, difficilmente scimpanzé, perché gli scimpanzé scendono di rado dalle colline alla spiaggia, però è possibile sentirne il richiamo, il richiamo della foresta, ecco cos’è.
È il mio ennesimo viaggio in Africa e ogni volta è un suono - Il Suono - a portarmi all’origine della felicità. La casa di Jane è un parallelepipedo di cemento e lamiera senza alcuna pretesa estetica, all’interno custodisce un disordinato santuario dell’evoluzione dell’umanità. Jane è partita ieri ma gli attendant mi offrono un tè del Kilimanjaro, e sono contenta e stanca, reduce dalla scalata di un paio di verdi colline d’Africa, in teoria più dolci di una montagna. Ho scarpinato per ore per incontrare le scimmie: inerpicarsi, arrampicarsi, anche strisciare tra le foglie, inciampare nelle liane, scivolare e rialzarsi ansimando con la certezza di lasciarci le bipedi penne per la fatica tutta cittadina di salire e scendere in un susseguirsi di alture mentre le scimmie, dispettose naturalmente, si spostano sempre un versante più in là. Mi si sono anche rotte le scarpe.
Tre mesi fa o poco più, ho indossato per la prima volta nella vita una mascherina chirurgica perché, quando finalmente con un po’ di fortuna si riesce a raggiungere un gruppo di scimpanzé, è necessario indossarla, per non trasmettere ai nostri antenati malattie che potrebbero essere loro fatali. Nel 1966 a Gombe c’è stata, tra la popolazione di chimps, un’epidemia di poliomielite portata ai primati dagli abitanti dei villaggi vicini, Mc Gregor ha perso l’uso delle gambe e di un braccio, è morto davvero strisciando a terra tra il fogliame senza molta comprensione da parte dei suoi compagni e nel 1968 David Greybeard morì, come altri, di una strana polmonite. Jane ha scoperto che gli chimps si ammalano delle malattie degli uomini (homo sapiens), ha anche scoperto che gli chimps, come gli uomini sapienti, possono essere egoisti, capaci talvolta di violenza gratuita, per gioco e non per fame, come i cacciatori, per intenderci, ha scoperto che, come i comunisti, mangiano i bambini. È capitato che rapissero dei bambini del villaggio, un ragazzino è tornato senza un braccio. Al mondo scientifico, inorridito alla scoperta della violenza di cui sono capaci i nostri avi, Jane ha risposto qualcosa di simile: «Noi per loro siamo primati come altri, solo senza peli, se mangiano un babbuino possono cibarsi anche di noi, alcuni primati umani, dopotutto mangiano cervello di scimmia, è una prelibatezza». Et voilà, il passo, o il salto, è breve.
Nei wet market di Macao, Hong Kong e Cina, nel mercato nero degli animali venduti vivi o cucinati espresso, ye wey, gusto selvatico, le scimmie continuano a fare una brutta fine. E anche i pipistrelli e i pangolini, prigionieri della stessa gabbia senza avere nulla a che spartire. Come se io mi trovassi in cella con Donald Trump, per esempio. Poi anche i virus infinitesimali fanno il salto di specie, pur di saltare da qualche altra parte, come non comprenderli. Ma non è una questione solo cinese, è africana, è italiana, è mondiale: sono gli allevamenti intensivi, le gabbie, le torture, i carcerati di ogni specie e luogo, l’istituzione totale di cui parlava Franco Basaglia, la disumanità di cui l’uomo sapiente è maestro, nonostante sia un ominide parente stretto di scimpanzé e bonobo (pan paniscus), ma i bonobo paiono meno aggressivi, con loro, attraverso briciole di Dna, condividiamo solo la facezia dei baci alla francese.
Poco più di tre mesi fa, a casa di Jane Goodall, la tazza di tè scottava nelle mani e l’acido lattico indolenziva i polpacci, sul frigorifero c’era una bottiglia di whiskey JB, come le iniziali dell’amato primate John Bull e poi su un mobile in salotto una teoria di teschi di scimmia, i cimeli di una vita dedicata a studiare da chi veniamo e su una mensola in camera da letto alcuni libri: tutte le opere di Shakespeare, Lungo cammino verso la libertà di Nelson Mandela e anche Kipling, of course. Il libro della giungla, lettura d’infanzia, ha contribuito a fare di Jane, chissà, una delle più importanti conservazioniste al mondo e di me, che ho iniziato con quel libro a sognare di arrivare un giorno nel regno delle scimmie, una che ha sbagliato tutto (per mancanza di coraggio, ha scelto la scrittura e non la natura, IO-scribacchina, TU-Jane). E su una parete un poster: Go back. We fucked up everything.
Ho fotografato il poster appeso a una parete del corridoio della casa di Jane, senza poter immaginare quanto potesse essere profetico. Ora che il mondo intero è costretto a imparare cosa sia un salto di specie, e a chiedersi: perché? Come è potuto accadere? Ora che io stessa mi domando perché non ho perseguito lo struggimento dello studio degli animali al posto del tormento della psiche degli uomini sapienti.
E allora, da poco meno di tre mesi, sogno anch’io un salto di specie: un fosbury, però. All’indietro tra un milioneottocentomila e novecentomila anni fa, a quando risale la separazione tra le linee evolutive tra pan troglodytes (scimpanzè) e pan paniscus (bonobo), un salto tra i rami della foresta, tra le braccia di una scimmia peace and love. Ché ho bisogno di abbracci, anche se le scarpe ormai si sono rotte. (Oppure sogno l’unico salto di specie possibile, poiché indietro non si può tornare, quello che porti alla consapevolezza del nostro essere animali tra gli animali, bestie dotate di una possibilità: la nostra scienza. Non la coscienza, proprio la scienza. Vorrei che si ripartisse dalla parola degli scienziati, adesso. Che fosse amplificata la voce di chi dice, dai laboratori di ricerca, dalle università, dagli studi sul campo, che la natura fa il suo corso, e che noi dipendiamo da lei e non viceversa. Vorrei che anche i letterati la ascoltassero e la traducessero in musica per libri). —
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