Dai ricucitori ai tirapiedi l’arte dei lavori inutili invade aziende e uffici

il saggio
Facciamo un sacco di lavori che non servono a niente, che non hanno senso. David Graeber ne elenca cinque categorie. I tirapiedi, gli sgherri, i ricucitori, i barra caselle e i supervisori. L’autore del saggio 'Bullshit jobs' (Garzanti, 396 pagg., 19 euro) - un’espressione inglese che si può tradurre elegantemente con “lavori del cavolo” - non è uno qualunque nè il suo lavoro un semplice divertissement. Graeber è un professore di antropologia alla London School of Econonics e per condurre la ricerca, nata da un suo articolo apparso nel 2013 in cui diceva tra l'altro “ho avuto una visione di come potrebbe essere l'inferno: è un insieme di individui che passano buona parte del tempo lavorando a qualcosa che non amano e che neanche sanno fare particolarmente bene”, ha ricevuto migliaia di feedback di lavoratori che gli dicevano: “anch'io mi sento così”.
Graeber è giunto alla conclusione che la caratteristica generale di un lavoro del cavolo è che è così totalmente inutile che nemmeno chi ne è incaricato è in grado di trovare una buona ragione per svolgerlo. Inoltre, nessuno si accorge se scompare chi se ne occupa. Il docente fa un esempio inquietante e divertente al tempo stesso. Qualche anno fa, era il 2016, in Spagna si scoprì che un ingegnere, impiegato statale, non era andato al lavoro per sei anni. Visto che era stato accantonato dai suoi superiori e non aveva niente da fare, abbandonò l’ufficio e si mise a studiare Spinoza, e il bello è che passarono anni perché qualcuno si chiedesse dove fosse finito.
Se questo accade nel lavoro pubblico, dice Graeber, non è che il privato si salvi. Come la mettiamo con gli impiegati di banche, studi di ingegneria e case farmaceutiche che passano gran parte del loro tempo lavorativo ad aggiornare il proprio profilo facebook?
Ma vediamo nel dettaglio in cosa consistono per Graeber i ‘lavori del cavolo’. Cominciamo dai tirapiedi, così chiamati perché sono quelli che hanno la funzione di far sembrare importante il diretto superiore. Più ce ne sono, più importante si sente il loro capo. Si affollano attorno a loro e fanno molto fumo senza produrre niente: un esempio tipico è quello del portavoce. Poi ci sono gli sgherri, così definiti per la componente di aggressività che la loro attività comporta: intimidiscono, sono invadenti e cercano di convincere con la forza; tra di loro troviamo gli esperti di relazioni pubbliche, gli addetti al telemarketing e i legali d'azienda.
La terza categoria comprende i cosiddetti ricucitori, i cui lavori esistono solo per un difetto nell'organizzazione. Devono tappare i buchi fatti da altri per noncuranza o per incapacità, ma la responsabilità è al vertice della piramide, dove non ci si preoccupa di mettere un argine alle falle. I ‘barra caselle’ sono i dipendenti che esistono soltanto per consentire a una organizzazione di affermare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo. Ad esempio raccolgono schede sul grado di soddisfazione dei dipendenti di un’azienda allo scopo apparente di migliorare la qualità del lavoro, ma sapendo bene che in ogni caso niente cambierà di una virgola.
L’elenco si completa con i supervisori, che sono di due tipi. Quelli del primo tipo fanno una sola cosa, assegnano il lavoro ad altri. Che, si badi bene, sarebbero benissimo in grado di sapere da soli cosa fare. Il secondo tipo di supervisori crea mansioni senza senso da far svolgere agli altri.
Forse l’anglosassone Graeber, nato in quell’etica protestante che riconosce nel profitto il segno della grazia divina, troverebbe incongruo sapere che in Italia molti che fanno un lavoro senza senso non si lamentano troppo, se poi gli resta tempo a sufficienza per svolgere un secondo lavoro o per andare al mare.
Ma continuiamo a seguire il filo del ragionamento dell’antropologo. Intorno agli anni Trenta del Novecento si pensava che la tecnologia avrebbe fatto lavorare tutti di meno, sembrava alla portata una settimana di quindici ore di lavoro. E invece non è successo. Anzi, oggi si sente ripetere che bisogna aumentare la produttività e che è necessario lavorare di più. Ma il proliferare di tanti lavori inutili starebbe a dimostrare proprio il contrario. In realtà dietro questa concezione del lavoro si nasconde la necessità di un controllo sociale. Passare otto, dieci ore in un ambiente dove tutti possono tenere d’occhio le mosse dell’altro è una forma di controllo totalitario, afferma Graeber, nel quale suona evidente il riferimento al panopticon di Foucault.
Più originali sono le pagine dedicate alle radici della nozione di tempo collegato al lavoro: se nell’antichità si comprava un vaso e non il tempo che il vasaio ci metteva a produrlo, oggi si compra il tempo del lavoratore, ovvero la sua libertà. Siamo più schiavi oggi di quando esisteva la schiavitù? L’anarchico Graeber non ha dubbi e propone una soluzione per rompere le catene dei Kunta Kinte con lo smarthpone: il reddito minimo universale. Cancellare i posti inutili, separare il lavoro dalla retribuzione e dare un sussidio indistintamente a tutti sbriciolerebbe molti settori statali che attualmente proliferano di funzionari. Anch’essi perderebbero il lavoro, ma avrebbero un reddito garantito.
Se qualcuno pensa che i 5 Stelle abbiano conquistato anche lo studioso inglese è fuori strada. Il sussidio graeberiano va dato a tutti, pure ai miliardari, perché altrimenti per controllare chi ne ha diritto si creerebbero altri lavori, altri cartellini da timbrare e altre ore passate in ufficio. —
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