Da Trieste a Kiev il film “La lunga corsa”: «Lo abbiamo girato poco prima della guerra»

Il regista Andrea Magnani parla del secondo lungometraggio dopo “Easy, un viaggio facile facile”, interamente realizzato in Ucraina
Paolo Lughi

TRIESTE. “La lunga corsa” è il titolo del secondo lungometraggio di finzione - dopo “Easy, un viaggio facile facile” (2017), che ebbe due nomination ai David di Donatello - diretto da Andrea Magnani, 50enne regista, sceneggiatore e produttore riminese che si è formato per anni a Trieste, dove ha sviluppato insieme ad altri anche la sua casa di produzione, la Pilgrim Film.

Magnani è fra i protagonisti di quella vivace schiera di cineasti emergenti (Del Degan, Anastopoulos, Turk, Colja, Gergolet, Samani) che sta facendo parlare di una Nouvelle Vague triestina: «Anche nel cinema Trieste è un porto dove molti approdano – osserva – e da dove si riparte portando con sé qualcosa di nuovo». Al pari di “Easy”, il primo film di Magnani, anche “La lunga corsa” – di cui si sono concluse le riprese e che è ora in postproduzione – è stato coprodotto e girato nel Paese oggi diventato il tragico scenario che tutti conosciamo, l’Ucraina. Il regista parla per la prima volta della nuova opera, in uscita entro la fine dell’anno, e della sua esperienza in quel territorio.

Quando e dove si sono svolte le riprese de “La lunga corsa” e come è nata la lavorazione in Ucraina?

«Il film è stato girato fra agosto e settembre dell’anno scorso interamente a Kiev, in uno studio per gli interni e in una location poco distante dall’aeroporto internazionale Boryspil per gli esterni. La scelta dell’Ucraina per la coproduzione e le riprese è dovuta alla buona riuscita di “Easy”, che in Ucraina è diventato col tempo un cult-movie per la critica e per l’industria cinematografica, che lo ha visto come un modello produttivo di film indipendente. Da parte mia c’era soprattutto la voglia di girare di nuovo insieme a un gruppo con cui mi ero trovato in grande sintonia. Stavolta infatti non c’era nessun legame di tipo narrativo con l’Ucraina. Nonostante sia girato lì, il nuovo film è volutamente ambientato in una sorta di ‘non luogo’, anche se tutto lascia presagire che la vicenda si svolga in Italia, perché i personaggi parlano italiano e le situazioni ricordano il nostro Paese».

Di cosa tratta “La lunga corsa”?

«È la storia di un ragazzo che nasce in carcere da una mamma detenuta, e per questo deve trascorrere con lei i primi anni di vita in quel luogo. Naturalmente il carcere rimarrà per lui, nello sviluppo della sua esistenza, un luogo di riferimento particolare. Come per il protagonista di ‘Easy’, volevo nuovamente un personaggio atipico, lunare, caratterizzato dalla naïveté, che vivesse uno straniamento dal mondo. Ho trovato l’interprete adatto in Adriano Tardiolo, il ragazzo di ‘Lazzaro felice’ di Alice Rohrwacher. La madre è la giovane attrice Aylin Prandi, mentre Barbora Bobulova è una direttrice del carcere “tarantiniana”, con una benda sull’occhio come Daryl Hannah in “Kill Bill”. Partecipa anche Giovanni Calcagno, che interpretava il killer in “Paradise” di Del Degan».

Durante le riprese in Ucraina qual era l’atmosfera del Paese?

«Era quella di un Paese aperto verso l’Occidente e molto cambiato rispetto al passato. Frequento l’Ucraina da undici anni a partire dai primi sopraluoghi per “Easy”, e ci sono tornato tante volte per diversi motivi legati ai due film, accordi di produzione, location, casting. Posso dire che l’Ucraina ormai è una delle mie “case”. In tutto questo tempo ho visto il Paese mutare faccia. Undici anni fa, quando al potere c’era ancora il presidente filorusso Yanukovich, un occidentale all’aeroporto veniva accolto da sguardi diffidenti, c’erano i visti. Invece fino a pochi mesi fa a Kiev si percepiva una bella effervescenza, all’aeroporto si vedevano tanti giovani europei arrivare, e viceversa tanti giovani ucraini partire liberamente. Ho notato negli anni la voglia nei più giovani di sganciarsi da una visione antiquata, per inserirsi in modelli globali. Credo che per questo ci sia in atto in Ucraina uno scontro generazionale».

Come è stata percepita l’aggressione russa da parte dei suoi collaboratori ucraini?

«A fine febbraio il direttore della fotografia Yaroslav Pilunskiy si trovava a Roma con me per la colorazione del film. La mattina del 24 era devastato dalla notizia notturna dell’invasione. Ho visto in lui la disperazione. Nelle pause del lavoro telefonava ai figli, con le lacrime agli occhi, spiegando loro come gestire l’eventuale scoppio ravvicinato di una bomba. La sera stessa, rifiutando diverse proposte di accoglienza, è partito per Varsavia, e da lì ha raggiunto di notte Kiev, dove ora è nelle file della difesa territoriale. Prima mi diceva sempre: “Sono otto anni che Putin minaccia l’invasione, non la farà mai”».

È in contatto con altri della coproduzione?

«Sì, molte persone che conosco, specialmente uomini, sono ancora in Ucraina, nei dintorni di Kiev, alcune donne della troupe sono all’estero o nei Carpazi. Avendo conosciuto gli ucraini, posso dire che hanno una percezione diversa dell’esistenza, che forse va indietro nel tempo, è più arcaica. Per loro non conta tanto l’istinto di mettere la propria vita al riparo, quanto la volontà di difendere la propria casa».

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