«Da solo nell’ acqua in sala macchine»

Sarà così anche lunedì, come da sessant’anni ogni 25 luglio: le paste, lo spumante e l’abbraccio alla figlia Adriana e al nipote Simone innanzitutto. Vittorio Geromella di Pedena, pochi chilometri da Pisino, ma da giovinetto profugo a Trieste, non ha sessant’anni, magari. Ne ha 87, ma sessant’anni fa si è salvato dal naufragio dell’Andrea Doria e da allora guai se mancano le paste per la più importante delle festività del suo personale calendario. Racconta per la prima volta la sua avventura perché l’anniversario è rotondo e perché tra qualche settimana arriverà a Trieste la nave da cui è stato speronato. Andrà a vederla? Fa una smorfia, ma quando la figlia dice che lo accompagnerà sulle Rive, acconsente con un mezzo sorriso.
Parla a ruota libera. «In Istria ho lavorato la terra e collaborato alla bonifica di un canale. Durante la guerra i partigiani mi hanno portato in bosco quando non avevo che 14 anni e ho dovuto fare la staffetta. Portavo gli ordini tra i vari comandi. A 17 anni ho deciso di scappare in Italia perché mi sentivo italiano, attraversando la Val Rosandra mentre i miei genitori sono rimasti in Istria. Ero profugo accampato al Silos, lavoravo la terra a Sant’Anna, pagato a giornata. Presa la cittadinanza italiana ho lasciato Trieste perché non c’era lavoro e sono partito per l’America. Sono rimasto tre mesi a New-York. Ho fatto il lavapiatti in un ristorante, ma mi davano 12 dollari alla settimana contro i 50 che prendevano i miei colleghi americani. Mi hanno detto che mi avrebbero aumentato la paga, ma non l’hanno mai fatto e quando i miei due colleghi sono ne sono andati dovevo fare il lavoro per tre in un ristorante pieno di clienti con cinque cuochi e sette camerieri. Ogni lunedì, giornata di festa, andavo dunque a Broadway dove c’era la sede di una compagnia marittima per vedere se potevo imbarcarmi».
«L’ho fatto sulla petroliera americana La Cruz dove sono rimasto 28 mesi. Guadagnavo il corrispettivo di 120mila lire al mese, la paga in Italia era di 20mila. Facevo il fuochista: controllavo caldaie, pressioni, pompe. Portavamo carburante alle truppe americane impegnate nella guerra in Corea e a quelle di stanza a Hiroshima dove sono rimasto per quaranta giorni pochi anni dopo la bomba atomica. Sono tornato in Italia con un bel gruzzolo dopo cinque anni sulle navi americane. Ho comprato una casa in via Vigneti e mi sono sposato nella chiesa di Servola con una ragazza di Pedena che conoscevo dalle elementari. Il giorno dopo il matrimonio, è arrivato il telegramma che mi offriva un imbarco. Sono tornato dopo 15 mesi e mia figlia aveva già sei mesi».
«A questo punto mi sono imbarcato sull’Andrea Doria e dopo quindici giorni è successo il patatrac. Dovevamo arrivare verso le otto di mattina a New-York, alle 11 e 20 di sera siamo stati speronati. Ho sentito solo un forte botto, ero sicuro che fossimo finiti sugli scogli. In quel momento ero nella sala macchine, dovevo smontare a mezzanotte, ero con due colleghi, controllavo le caldaie. Gli altri due quando siamo stati colpiti sono scappati via. Ero il più giovane e nuovo, ma sono rimasto da solo lì sotto. Le porte stagne non tenevano più, la nave incominciava a sbandare. Ho sentito all’altoparlante: «Passeggeri ed equipaggio pronti per abbandono nave». Avevano detto «Pronti», non «Abbandonate», ma i più sono scappati. È suonato il telefono e dal ponte ci hanno ordinato di aumentare la pressione delle caldaie, ma da solo non potevo farlo. Sono rimasti lì sotto fino alle cinque del mattino quando l’acqua a cominciato a scendere dall’alto e le pompe non bastavano più. Un ufficiale è venuto a dirmi: “Non c’è più niente da fare, muoviti che qui salta tutto per aria”. Sono salito, in cabin ho preso il salvagente e calzoni asciutti, ho abbandonato soldi, un orologio Omega e il resto. Ho trovato una donna con le con gambe spezzate, l’ho presa in braccio, portata sul ponte e messa nella lancia di salvataggio. I passeggeri più vecchi non volevano scendere, li abbiamo legati e spinti sulla scialuppa. Qualcuno ha portato whisky e cognac, abbiamo bevuto dalle bottiglie per farci coraggio e da ultimi scendere anche noi. Erano le sei del mattino, quattro ore più tardi l’Andrea Doria sarebbe colata a picco. La nave Ile de France ci ha raccolti e portati in salvo a New-York».
«L’esperienza non mi ha intimorito. Ho continuato a navigare sulla Cristoforo Colombo e sulla Conte Biancamano. Poi mi hanno assunto alla Vetrobel, mi hanno mandato a fare il corso di addestramento a Marghera e una scheggia di vetro mi ha accecato da un occhio. Pensare che dall’Andrea Doria ero invece uscito indenne».
(Silvio Maranzana)
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