Da Salò a Trieste gli uomini di Mussolini che cercarono (e trovarono) “La bella morte”

Gianni Oliva pubblica per Mondadori un saggio che analizza la nascita e la fine della Repubblica Sociale Italiana, da martedì in libreria 
Paolo Marcolin

L’ANALISI



Tra i quindici gerarchi fascisti fucilati dai partigiani dell’Oltrepo pavese sul lungolago di Dongo il 28 aprile 1945 c’era anche un ex direttore del Piccolo. Idreno Utimpergher aveva firmato il quotidiano per alcuni giorni durante i momenti convulsi seguiti all’armistizio annunciato alla radio da Badoglio, l’otto settembre ’43, quando i tedeschi ci misero un attimo a disarmare i soldati italiani e a occupare Trieste. Utimpergher, d’intesa con loro, assunse la direzione scalzando Silvio Benco, l’anziano scrittore e giornalista che era stato nominato alla guida del Piccolo dopo la caduta di Mussolini.

Toscano di nascita, Utimpergher era uno squadrista che aveva fatto la marcia su Roma, ma era stato emarginato nel Ventennio per il suo radicalismo e si trovava a Trieste come segretario della Corporazione dei Lavoratori dell’Industria. In quei giorni, oltre a reggere il timone del Piccolo, che passerà subito a un funzionario della prefettura, Hermann Carbone, fonda il Partito fascista repubblicano della città giuliana, il secondo a nascere nell’Italia ormai divisa in due dopo quello di Bologna. Poi, con un pugno di triestini che si spostano in corriera, aiuta a riaprire le sedi repubblicane di Venezia, Rovigo, Padova, Treviso e Belluno.

Utimpergher aveva aderito di slancio alla repubblica sociale di Mussolini e ne aveva seguito le funeste vicende fino a trovare la morte. Nell’Aiace di Sofocle si legge: «chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire». È il mito della bella morte, transitata dal codice eroico dei poemi omerici all’Atene del V secolo a.C. e poi risalita per li rami fino a lord Byron e al suo empito romantico che lo portò a morire per la libertà della Grecia. Ma è un attributo che il giudizio storico ha rifiutato senza appello per chi ha scelto di stare dalla parte del fascismo di Salò, la repubblica sociale nata più per volere dei tedeschi che di un ormai abulico Mussolini. Quale eroismo ci poteva essere tra i militi delle brigate nere che uccidevano i civili, i fanatici torturatori della banda Carità, i criminali aguzzini che stavano con Pietro Koch, gli stupratori che usavano la violenza sessuale come arma ideologica per affermare un machismo superomista?

Ma l’arcipelago di quanti si arruolarono volontari nella Rsi era molto variegato. Accanto ai vecchi che avevano fatto la marcia su Roma come Utimpergher c’erano giovani avanguardisti infiammati dai campi Dux e dai cimenti del Littorio; ragazze insofferenti dei ruoli femminili che cercavano l’indipendenza dalla famiglia; paracadutisti in armi che rimasero accanto ai reparti germanici nella memoria di El Alamein; marò affascinati dal carisma del ‘Principe Nero’ Junio Valerio Borghese; intellettuali e agitatori inascoltati in cerca di rivincita.

Tra loro c’erano persone come Carlo Mazzantini, padre dell’attrice e scrittrice Margaret, che nel 1986 pubblica ‘A cercar la bella morte’, romanzo autobiografico sulla sua, mai rinnegata, esperienza nella Rsi. Sono gli anni in cui le tesi di Renzo de Felice sul Ventennio cominciano a trovare ascolto in un pubblico più vasto e che un decennio esatto dopo porterà Luciano Violante al famoso discorso sui ‘ragazzi di Salò’. A fine secolo esce ‘La repubblica delle camicie nere’, primo studio organico sulla Rsi ad opera di uno studioso di solido antifascismo come Luigi Ganapini e nel 2001, con la canzone di Francesco De Gregori ‘Il cuoco di Salò’, la parte di italiani che scelse di continuare a stare coi nazisti, ‘dalla parte sbagliata’ della guerra civile, trova cittadinanza nell’area conciliante del pop.

Caduto così da tempo lo steccato che escludeva il discorso su Salò dal politicamente corretto, il titolo ‘La bella morte’ (Mondadori, 312 pagg., 20,90 euro) che Gianni Oliva ha scelto per il suo libro che esce martedì - e che si pone in prosecuzione con ‘La guerra fascista’ (Mondadori, 2020) – assume un significato diverso. «Si tratta - scrive lo storico piemontese - di cogliere il periodo fondante della nostra storia recente con l’occhio attento alla complessità attraverso la quale si è sviluppato, e al di fuori delle contrapposizioni manichee». La costituzione della Rsi insanguinò le regioni occupate dai tedeschi e divise profondamente gli italiani, proiettando le sue contraddizioni nel dopoguerra e, aggiunge Oliva, garantendo alla prospettiva comunista un ruolo sconosciuto in altri paesi occidentali.

La prima parte del volume è dedicata ad analizzare lo stato d’animo che conduce al fascismo di Salò e all’agitarsi al suo interno di percorsi anche sorprendenti, come quelli che portano l’ex comunista Bombacci a essere fucilato a Dongo assieme a irriducibili gerarchi. Oliva, attraverso la figura Giorgio Almirante, futuro segretario del Msi, megafono della politica razziale di Salò, ci ricorda poi che i repubblichini furono anche zelanti rastrellatori di ebrei da mandare alle camere a gas. La seconda parte del volume è dedicata alle vicende politiche della restaurazione neofascista. Uno scenario livido, da ‘notti e nebbie’ (per citare il romanzo di Carlo Castellaneta che descrive gli ultimi agonici giorni della Rsi) in cui un attonito Mussolini, cosciente di essere manovrato dai tedeschi, assiste quasi con disinteresse alla tragedia finale, tanto da non muovere un dito nemmeno per salvare Galeazzo Ciano, marito dell’amatissima figlia Edda. —

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