Da destra e sinistra, divisi dai padri e dai “vecchi” dei partiti tradizionali

Antagonisti rispetto alla generazione precedente, scelsero nuove strade per fare politica sul campo
Confronto con la polizia ai Portici di Chiozza
Confronto con la polizia ai Portici di Chiozza

TRIESTE. Più che “esuli in patria”, definizione coniata dal politologo Marco Tarchi per i seguaci del Msi erede del fascismo, tanti ragazzi di destra negli anni Settanta a Trieste erano figli di esuli veri. Un rapporto con i padri complesso non impediva quel legame con l’Istria, Fiume e la Dalmazia che spingerà tanti a varcare la porta della sede del Fronte della gioventù, subito dopo la firma del Trattato di Osimo del 1975 e la definitiva cessione della zona B alla Jugoslavia, andando in qualche modo a “riequilibrare” i numeri nettamente sfavorevoli con i coetanei di sinistra.

Uno di questi figli di esuli veri è Marco Valle che evidenzia come, al confine orientale, la sua generazione si trovò nel bel mezzo di una guerra fredda. «Davanti alla voracità di Tito avere una situazione di fermento, sempre ovviamente nei limiti, era una cosa che tanto fastidio non dava. Mantenere la città in questo stato di agitazione perenne era utile nelle logiche Est-Ovest e la violenza, da una parte e dall’altra, venne sì repressa ma in qualche modo anche tollerata perché faceva comodo» dice Valle a distanza di oltre quarant’anni. Ma quel gruppo di “fascisti immaginari”, nel crescere assieme, allo stesso tempo si nutriva di musica, libri, fumetti e cinema. Un forte spunto metapolitico, ad esempio, arrivò dall’esperienza della Voce della Fogna, giornale fatto a Firenze che usava l’arma dell’ironia e dell’autoironia per irridere allo slogan “fascisti carogne tornate nelle fogne”.

«Restammo subito colpiti dalla freschezza e dalla novità e decidemmo di adattarla al contesto locale. All’inizio il personaggio disegnato da Jack Marchal, un topo di fogna proprio come ci etichettavano, infastidì qualcuno del nostro ambiente, gli anziani ignorano ogni cosa…, ma presto tutti in via Paduina compresero che l’autoironia era vincente». E così nel 1977, oltre agli scontri con i “rossi”, parte di una destra giovanile curiosa, stufa di sentire parlare di “legge e ordine”, scelse un percorso tutto suo per vivere nel presente.

Se la destra aveva praticamente il Msi, che stava stretto a molti giovani, a sinistra non c’era solo il Pci. Una galassia infinita di sigle, movimenti e gruppi nascevano. Anche a Trieste. «La mia generazione femminile era forse la prima completamente scolarizzata, ma in una società autoritaria anche all’interno della stessa famiglia. Con mio padre parlavo molto di politica, però gli aspetti delle libertà individuali e dei diritti fra lui e me erano diversi; da lì e per questi motivi entrai in contatto con il gruppo de il Manifesto, anche se c’erano poi Lotta continua, Autonomia operaia…» dice Clara Sforzina cresciuta in una famiglia di sinistra, papà comunista, nella città del Pci di Vittorio Vidali che guardava all’Unione sovietica.
 
Le distanze dal partito, già marcate in una parte dei giovani, aumentano in una fase di rivendicazioni quali l’aborto, la riforma della psichiatria per la chiusura dei manicomi, che seguono quelle sul voto ai 18enni e il divorzio. Sono tutte battaglie degli anni Settanta che portano a un cambiamento radicale della società e vedono Sforzina aderire ai Collettivi femministi e a lavorare al fianco dell’Unione donne italiana, per lo più composto da iscritte al Pci. Il grande partito della falce e martello, insomma, faceva da “grande madre”.
 
Il 17 febbraio 1977 rappresenta però una data spartiacque, con il comizio di Luciano Lama all’università La Sapienza di Roma e la cacciata del segretario nazionale della Cgil, messa in atto dagli indiani metropolitani e dagli extraparlamentari, diventando punto di svolta per tutta l’Italia. E anche per Trieste dove il Pci ha il controllo sui lavoratori, a iniziare dai portuali, ma si ritrova a dover gestire, in alcuni casi anche a reprimere fisicamente, una nuova generazione di ragazzi schierati a sinistra. «Il Pci in quella stagione si perse, non riuscì a essere inclusivo – dice Sforzina – nonostante il grande lavoro fatto da Enrico Berlinguer. Solo le donne riuscirono a mantenere una continuità storica…».

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