Da cervello sprecato ad assassino di Sissi: chi era Luigi Lucheni

In edizione italiana i diari dell’anarchico che diventò killer Un ritrovamento tormentato e una personalità da scoprire
Oggi si parla molto, e giustamente, di “cervelli in fuga”, ma non si parla di “cervelli sprecati”, ovvero le persone che non hanno potuto esprimere le proprie capacità intellettuali. L’intuizione viene leggendo un libro curioso e stimolante:
“Vita e morte dell’assassino di Sissi. Luigi Lucheni” di Corrado Truffelli (Fermoeditore, 236 pagine, 22,90 euro)
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Il volume racconta in sei capitoli la tragedia dalla parte dell’assassino. Il più interessante è il primo che riporta le memorie che Lucheni scrisse durante la carcerazione. È il manoscritto che ne causerà la morte, perché quando gli viene sequestrato, lui vive questo atto come la massima ingiustizia. Impazzisce di rabbia e finisce nel “cachot”, la peggiore delle celle rigore, dove si suiciderà, o sarà suicidato. È il 1910.


Il manoscritto ricompare nel 1998 quando viene pubblicato a Parigi, un libro caratterizzato da un lunghissimo frontespizio: “Luigi Lucheni/ Memorie di un ragazzo abbandonato/ alla fine del XIX° secolo/ raccontate da lui stesso/ precedute e seguite da/ la storia dell’assassino/ di Elisabetta, detta Sissi,/ imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria». Cadeva proprio quell’anno il centenario del delitto.


Che cosa era successo nel frattempo? Il carceriere incaricato del sequestro si era tranquillamente portato a casa il “souvenir”. Alla sua morte nel 1938 la figlia l’aveva offerto a un collezionista, il signor Cappon, che se lo tiene in un cassetto per quasi trent’anni, finché suo figlio, Santo Cappon, riordinandoa le carte del padre, scopre il manoscritto, lo legge con attenzione e riscontra le straordinarie corrispondenze tra nomi, date e fatti in esso narrati e i documenti rinvenuti negli archivi, a cominciare da quelli parmensi. È un documento che scotta, ma è autentico. Va pubblicato. Però potrà farlo, appena nel 1998 dopo la morte del padre.


Ci vogliono quindi quasi novant’anni perché venga resa nota la verità di Lucheni, che vuol spiegare perché è diventato il criminale. E lo fa con un tono combattivo, a volte sprezzante, in cerca di riconoscimento. La sua scrittura, a tratti assai felice, è intrisa di citazioni, di appelli, di perorazioni; talvolta è confusa perché la sua cultura da autodidatta non gli fornisce tutti gli strumenti di cui ha bisogno, nonostante abbia divorato montagne di libri. Era uno che rimproverava i suoi compagni perché non leggevano, mentre lui era onnivoro e aveva una memoria formidabile che gli permetteva di citare correttamente gli Enciclopedisti e i passi dei vangeli. Un cervello sprecato tra quattro mura.


Lucheni coinvolge il lettore con efficaci espedienti narrativi: racconta la sua nascita attraverso il dialogo con la madre: «Perché, o pastorella, non esegui diligentemente il tuo dovere come facevi sei mesi fa? Non vedi le tue pecorelle che pascolano laggiù in quel campo dove ti è vietato lasciarle entrare? Ma come! Malgrado i rimproveri e forse qualche botta che riceverai questa sera se scopriranno la tua negligenza, tu resti seduta, qui, sotto il castagno? Vediamo! Scosta questo grembiule che ti nasconde il volto!... Cosa c’è, stai piangendo? Cosa ti manca, dimmi, perché piangi? Mi mostri il tuo ventre e mi dici che chi ti ha fatto questo non ha più sorrisi per te, e tu temi che ciò sia un indizio, che lui non manterrà le sue promesse; promesse che avrebbe già dovuto realizzare? Dimmi, o sventurata, chi è l’autore di questo misfatto?... Come, dici che è stato il figlio del tuo padrone? Ah! Povera Luigia, asciuga presto le tue lacrime; non aver paura, più tardi avrai il tempo di versarne di ben più amare!».


Certo, il linguaggio risente del suo tempo, ma è un dialogo teatrale, denso di una dolorosa ironia sul classico amore ancillare tra «il gentiluomo e la villana», cito sempre l’autore, che a Parigi «ha deposto il fardello». Di lei Lucheni non saprà più nulla.


E ci vorranno altri vent’anni perché veda la luce la versione italiana, che si deve a Corrado Truffelli, ex uomo politico parmense, che si è dedicato alla storia locale del suo territorio, incappando nell’ingombrante figura di Lucheni.


Va sottolineato che le memorie non sono scritte per autoassolversi, Lucheni non si pente, si ritiene un «benefattore dell’umanità» vuole però confutare le «teorie assurde» su di lui. Contesta Cesare Lombroso, all’epoca la più grande autorità italiana nel campo della antropologia criminale, che lo descrive come un superbo esemplare di «criminale nato», anche se ammette che l’ambiente ha il suo peso. Infatti, dopo alcuni anni all’Ospizio degli esposti di Parma e con una prima famiglia affidataria, alla quale si affeziona ma che non può tenerlo oltre, Luigi a otto anni, il 21 marzo 1882 che definisce «data fatale», viene affidato, grazie a un funzionario corrotto, a un essere spregevole, Carlo Dicasi, che accoglie i bambini dell’ospizio per percepire il sussidio: saranno sei anni di sporcizia, privazioni e degrado materiale e morale: lo fa dormire per terra o nella stalla con i ratti, raccogliere sterco e accompagnare un mendicante cieco. Lo manda a scuola perché deve, ma in classe è tenuto in disparte per i pidocchi. Però sia a scuola, sia all’ospizio, sia durante il servizio militare si fa notare per la viva intelligenza.


Lucheni, dopo aver raccontato la prima parte della sua vita, si rivolge direttamente al lettore rilevando come, nonostante le miserie, lui fosse un «ragazzo saggio buono e ubbidiente» che aveva bisogno di amore, consigli e amicizie «perché aveva ricevuto dalla Natura, come tutti gli uomini del resto, delle buone qualità».


A 14 anni fugge e comincia la sua vita randagia, che lo porterà fino a Vienna, Budapest e pure a Trieste dove sarà arrestato ed espulso. Questa esperienza da “ebreo errante”, come sarà bollato dopo il delitto, conosce un intervallo nel periodo del servizio militare nel tredicesimo reggimento di cavalleria Monferrato di stanza a Napoli dove si fa valere, tanto da ricevere un encomio e da diventare sottoufficiale, poi sarà degradato per l’aiuto fornito a un sergente in punizione. È un suo tipico gesto di ribellione: il primo di tanti contro le ingiustizie. Eppure apprezza la vita militare, l’autorità, fa addirittura domanda per diventare guardia carceraria. E viene stimato dal suo comandante, il principe di Aragona che lo prende al suo servizio. Altro colpo di scena: non sopporta di fare il cameriere e si licenzia, si pente ma il principe non lo riassume, però Lucheni gli resterà affezionato tanto da scrivergli anche dal carcere. Lascia Napoli per la Svizzera.


Dai documenti, che presenta Truffelli, alcune testimonianze parlano di una sua adesione all’anarchia già durante la leva, altre dopo il rientro in Svizzera: lui si definisce «un anarchico isolato» e la sua adesione ideologica è piuttosto superficiale. Lucheni fa capire che il suo gesto è frutto della rabbia accumulata negli anni dell’infanzia e nell’adolescenza e della lotta a tutte le ingiustizie. Però va considerato il contesto; le fortissime tensioni sociali che pervadono l’Europa: sono gli anni in cui Bava Beccaris a Milano massacra gli operai a cannonate, e in tutto il continente si moltiplicano gli assassini degli anarchici.


Pure Lucheni sente il bisogno di compiere un’azione dimostrativa, può darsi che lo muova anche la vanagloria; vuole colpire un simbolo di quei borghesi che l’hanno umiliato, sceglie il duca d’Orleans di cui è annunciato l’arrivo a Ginevra. Ma lui non viene, arriva invece Elisabetta d’Austria e Lucheni la colpisce con una lima. Lei morirà, come voleva: «Bruscamente, senza soffrire». Contro Lucheni si scateneranno la stampa, soprattutto quella austriaca capitanata dalla Neue Freie Presse, e la pubblica opinione. Condannato all’ergastolo, sarà rinchiuso nel carcere dell’Évêché dove il direttore Perrier lo tratta con umanità. Ma non va bene, campagne di stampa si accaniscono contro il mostro, che non viene punito adeguatamente: «Può leggere e fumare sigari». Il direttore viene cambiato e il nuovo, Jean Fernet, comincia a tormentarlo, fino a sequestrargli il manoscritto. Lucheni folle d’ira finisce nel “cachot”, che sarà la sua tomba.


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