Da Bugatti a Trieste come un thriller l’autobiografia di Romano Artioli
Chi non sogna si deve arrangiare con la realtà ma è dalla realtà, bisogna ammetterlo, che nascono i sogni. Romano Artioli ha poco più di dieci anni quando prende i primi colpi di fulmine per i motori. Nasce a Moglia, in provincia di Mantova nel 1932, ma cresce a Bolzano e da vent’anni vive a Trieste. Legge Salgari, gioca alla guerra in una sorta di via Pal nel Passo della Mendola, dove la famiglia si era rifugiata nel 1943. Lì un cugino dimentica un libro: “Come ottenere la potenza diesel” di Ernesto Tron, Romano lo legge avidamente e decide che i motori saranno la sua vita. Ha la possibilità di armeggiare con tutti i tipi di veicoli in dotazione ai vari eserciti, nel dopoguerra il padre inizia a commerciare ex macchine militare e Romano, a 17 anni, firma il suo primo contratto da meccanico. Da allora non si contano le sfide, dal Garage 1000 miglia alla messa in pratica del vero sogno: l’acquisto della Bugatti, un resoconto che ha il passo di un romanzo in “Bugatti & Lotus Thriller. La costruzione di un sogno” (Cairo Editore, pag. 225, euro 16, 00).
Romano Artioli è un uomo pratico, ma soprattutto è un creativo. Alle spalle c’è un’energica biografia, un padre forte, sei fratelli e un temperamento passionale. E poi c’è spirito di sacrificio, nulla si può negli affari come nell’arte senza disciplina. L’iniziativa non manca, altro elemento fondamentale per conquistare i desideri. Ma bisogna pensare in grande, cosa di cui il nostro non difetta già da giovanissimo quando, poco più che adolescente, fonda dei club per permettere una più vitale presenza di ragazze. Viaggia in Italia, se ne va a Detroit e visita lo stabilimento Ford Rouge. In America comprende pure ciò che non vuole dalla vita: «Capii che il divertimento tipico degli americani, tutto a base di alcol, non faceva per me. Le relazioni tra uomo e donna, prive di ogni risvolto romantico mi convinsero che volevo una vita in cui i rapporti si basassero sulla parità. L’organizzazione industriale, esclusivamente protesa al profitto, non mi era piaciuta per niente: quanto più grande sarebbe stato i profitto se il lavoro degli operai fosse stato gradevole!». E questo è anche il fil rouge del libro.
Al di là delle grandi imprese, in prima linea c’è sempre la possibilità dell’umano, di fare i grandi affari umanamente, salvaguardando le persone e tutto ciò che ha un’impronta di bellezza, come la Bugatti appunto. Perché il bello si trova ovunque, non solo in ciò che pensiamo come canoniche opere d’arte. Lo dice bene Vittorio Feltri nell’introduzione quando ricorda i natali di Ettore Bugatti e il mito di bellezza che ha saputo inventare. Artioli fa la stesa cosa, ha naso per gli affari ma sa individuare ciò che fa una macchina bella e potente. Per cui gli appassionati potranno seguire con soddisfazione il percorso tecnico dove il Garage 1000 Miglia, con il suo staff di tecnici, pare una scuola di meccanica ideale. Tanto che la fama permette ulteriori salti, come l’essere il primo concessionario di zona della Ferrari. Il sogno però è un altro, la Bugatti appunto. In mezzo c’è l’acquisto della Lotus, anche perché Romano Artioli sa che ogni sogno ha bisogno di “protezione”. Ci sono sfide, minacce, intimazioni, imbrogli bancari e veri e propri sabotaggi, tradimenti e traditori. L’autore non retrocede, fa tutti i nomi di chi vuole il potere senza estetica e di chi, al contrario, ha un protocollo ben diverso come Ferrari o Piëch. Sta di fatto che Bugatti ha avuto il suo sogno italiano, nel 1987, la Bugatti Automobili Spa di Campogalliano e tutta una serie di rilevanti iniziative, oltre la realizzazione della EB 110 GT. In questa impresa complice è la moglie Renata, compagna essenziale, e una famiglia intera in sintonia col sogno. Artioli ha creato un vanto tutto italiano, distrutto con calunnie e sabotaggi che solo fortunate coincidenze hanno fatto in modo non diventassero dei veri crimini. Ciò che il libro rivela è soprattutto la possibilità di essere onesti. Sempre. Anche quando gli affari sono quelli in cui un debito di tre milioni di sterline è considerato “pidocchioso”. Perché alla fine tutto diventa una faccenda di stile, soprattutto la pratica di saperlo proteggere, quello stile. E come ogni grande progetto, anche se l’Italia ha voluto perderlo, non è detto che non vi sia la possibilità di riprenderlo. Come scrive Artioli nell’ultimo capitolo: la vita continua. —
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