Cristina Vivinetto la poetessa trans che racconta “Dove non siamo stati”

Nata come Giovanni a 26 anni ha già vinto il Viareggio «Scrivere è come cambiare sesso, indica nuove realtà»  



Nata come Giovanni nel 1994, è entrata nella poesia come Giovanna Cristina Vivinetto, autrice di una prima raccolta in versi, “Dolore minimo” (Interlinea), libro che si è fatto strada tra premi e riconoscimenti. Ora pubblica per Rizzoli la sua seconda raccolta, “Dove non siamo stati” (pag. 144, euro 13), che va oltre il tema della transessualità e assume un’eco collettiva. A 26 anni ha già vinto il Viareggio, una bella responsabilità: «La responsabilità è molta – dice Vivinetto – forse a prescindere dal premio. Il mio primo libro aveva raccolto molti consensi, quindi avevo l’incertezza di essere in grado di tenere il passo. Il Viareggio è un riconoscimento prestigioso, significa anche continuare l’operato poetico di altri, sentirsi all’interno di una comunità. Prima di me, nella sezione poesia, l’ultima autrice che l’ha vinto è nata nel 1970, quindi forse non c’è attenzione verso la poesia più giovane, eppure conosco bravissimi autori in versi miei coetanei».

Dunque come si spiega l’attenzione che ha ricevuto?

«Bisogna infatti porsi due domande: ma Giovanna Vivinetto è così brava da superare tutti gli altri? Oppure: il caso di Giovanna Vivinetto è stato più visibile rispetto agli altri? Io ritengo più valida la seconda domanda. Non è questione di bravura, io ho ancora molto da imparare, il problema è l’attenzione che la poesia fatica ad avere».

La poesia si alimenta di straniamento, ovvero farci vedere qualcosa da un punto di vista diverso. Non trova che sia molto simile alla sua biografia?

«È proprio così. Cambiare sesso significa proiettarsi in una prospettiva che di fatto non avevi mai considerato, almeno fino al momento del cambiamento, prima eri intrappolato in una realtà che non ti apparteneva. Quindi per me diventare Giovanna ha significato ricostruire, immaginare, straniarsi perché ho dovuto reimparare tante cose all’età di vent’anni».

E cosa significa ricrearsi? Anche nell’ultimo libro affronta la questione dell’identità, “cellule da rinominare”, recita un suo verso…

«Ricrearsi significa anche sentirsi parte di un’identità più amplia, coincide con i confini del tuo corpo, ma riguarda tutto quello che l’ha plasmato. Nel nuovo libro parlo d’identità, ma è al tempo stesso un’identità individuale e collettiva, perché il collettivo va a influenzare la tua crescita individuale. In “Dove non siamo stati” il fuoco si amplia, è una sorta di romanzo corale in cui rientrano tutta una serie di profili nuovi. Nell’ultima parte mi metto nei panni di una persona che sta morendo. O ancora nei reietti, in persone che vivono ai margini della società e che tuttavia con la loro esperienza di vita straniante ed estraniante vanno a definire l’identità di un paese intero».

Lei già dalla prima raccolta, “Dolore minimo”, ha subito diversi attacchi personali, ma anche molta solidarietà. Qual è la prima abilità necessaria per affrontare la transessualità?

«Direi che è l’onestà con se stessi. Ma forse ancora più importante è la capacità di esternare. Spesso, proprio per paura delle reazioni, le persone transessuali tengono dentro questi macigni che con il tempo si aggravano. In tal senso “estrovertere” è una fortuna, tirare fuori quello che si ha dentro anche a costo di soffrire. Quindi direi infine che la prima abilità è la capacità di condivisione, riuscire a rendere il tuo dolore più leggero perché puoi spartirlo con più persone».

Com’è nata la passione per la scrittura?

«Un po’ come per tutti gli autori, è nata per desiderio di emulazione. Avevo quindici, sedici anni e studiavo i grandi poeti, mi chiedevo come geni quali Leopardi o Foscolo avessero potuto scrivere testi così prodigiosi in giovane età. Tutto è iniziato lì, ho cominciato a scrivere imitando, quindi cose immature, poi col tempo la poesia mi ha permesso di mettere a fuoco cose che non capivo e mi ha restituito una lingua poetica. Ho insomma trovato una parola a qualcosa che è veramente difficile nominare».

Ci sono due scuole di pensiero. Chi dice che la poesia difficilmente cambierà il mondo e chi invece crede nella sua funzione sociale. Lei da che parte sta?

«Sto un po’ nel mezzo, non escludo entrambe le opzioni. Siamo noi a dare il significato alla poesia, la funzione si assume in base al contesto culturale in cui ci si trova. Oggi la poesia non è ascoltata come un tempo, è considerata un bene inutile, tuttavia può sempre scattare una scintilla. Me ne sono resa conto con “Dolore minimo”. Mi sono trovata difronte una realtà che non era abituata alla poesia, tante persone mi hanno detto che non leggevano poesia perché la ritenevano difficile. Poi però ringraziavano perché con “Dolore minimo” avevano letto il loro primo libro di poesia. Ecco trovo sia bello cercare di allargare un po’ questa nicchia».

La cosa più poetica che le è successa?

«La poesia stessa, per quanto sia banale dirlo. Avere la possibilità di conoscere i grandi poeti contemporanei, intendo i poeti vivi che hanno tracciato la storia della letteratura e che sono disposti al confronto e all’amicizia. Di solito i modelli sono morti, ma in Italia abbiamo grandi autori in vita. Quindi perché non sfruttare l’occasione per dimostrare tutta la tua stima, tutto il tuo amore verso chi ti ha dato gli strumenti per arricchire la tua esperienza? Penso a poeti come Franco Buffoni, Vivian Lamarque, Antonella Anedda o Roberta Dapunt». —



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