Così gli esuli istriani scoprivano la follia
Sarà presentato mercoledì 30 settembre, alle 18, al Museo Ferroviario di Trieste, il libro “Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970”, scritto da Gloria Nemec, docente e ricercatrice di Storia sociale. Il volume è corredato dalle due presentazioni di Peppe Dell'Acqua, direttore della Collana 180-Archivio critico della salute mentale e di Livio Dorigo, presidente del Circolo di cultura istro-veneta Istria, insieme al quale questo libro è stato realizzato.
di ANNA MARIA MORI
Fa male e fa bene, leggere questo libro, bello, necessario. E importante. Fa male ritrovarsi ancora una volta a tu per tu con un carico di dolore, di solitudine, di incomprensione, che anch' io ho vissuto in prima persona, e che vigliaccamente, di tanto in tanto, vorrei poter dimenticare. Fa male l'innocenza di un popolo (chiamiamola pure in qualche caso ignoranza: ignoranza della politica, della ragioni e sragioni dei vari nazionalismi e delle varie ideologie, mancanza di strumenti per poter prevedere e difendersi dalla violenza), fa male, dicevo, specchiarsi in un intero popolo ferito senza motivo, trovarsi a tu per tu con la solitudine di un dolore che non trovando parole si arrende al silenzio: «Gli internati, quasi tutti, preferivano tacere». Scrive Peppe Dell'Acqua nel presentare questo straordinario lavoro di pazienza e intelligenza fatto con Gloria Nemec: «Coglievo una sorta di arresto, un'immagine ferma in un tempo che non scorre...».
"Dopo venuti a Trieste" è la storia, documentata, di un dolore collettivo, che si fa individuale, di partenza condannato e autocondannato al silenzio, e che poi, quando riesce finalmente ad esprimersi, si trasforma nell'urlo della cosiddetta pazzia. È, tra le tante, la storia di «Sofia che veniva da Lussino e nel marzo del 1947 era da soli otto giorni a Trieste...vagava per le strade, e poi, in strada, cominciò a gridare...». Viene ricoverata d'urgenza in Opp: «Sofia era passata, nel giro di una settimana, dall'isola quarnerina a San Giovanni, dalla condizione di una ragazza triste e muta, a una creatura che gridava e si dibatteva dicendo cose sconclusionate...». Fa male constatare un dolore che si trasforma in delirio, così come fa anche tanto male misurarsi ancora una volta con la pazzia, quella sì reale, di quelli che questo dolore lo hanno inflitto, alleandosi alla fin fine con tutti gli altri che hanno negato per troppi anni il diritto di chi era vittima a potersi dire e mostrare come tale.
È un libro che fa male questo "Dopo venuti a Trieste". Racconta una pagina che pochi ancora conoscono, ed è la pagina carica di nomi, numeri, storie e dati riguardanti l'esodo istriano che tra il 1946 e il 1953 si concentrò a Trieste (tra le 25 e le 30mila persone):«Nella città divenuta "capitale dei profughi" non era difficile per i neo-arrivati trovarsi isolati e sgomenti a fronte di difficoltà del tutto nuove. Per alcuni ciò comportò una crisi di drammatica impotenza e disperazione, il cui approdo, seppure temporaneo, fu l'Ospedale psichiatrico». Fa male registrare che a pagare sono stati spesso i più innocenti tra gli innocenti: i contadini, digiuni di lettura e scrittura, e i loro figli.
E però è anche un libro che fa bene (al cuore, all'intelligenza, al bisogno di credere e di sperare) questo "Dopo venuti a Trieste". Intanto perché testimonia di una capacità sempre più rara, ed è quella di mettersi al servizio: di una memoria, della storia, di tante storie. Parla di un "noi", anzi di un "loro", al posto del troppo inflazionato "io". Testimonia di una limpida, t. enace e paziente volontà di mettersi in ascolto e di servire esseri umani nel loro patire e pagare per colpe non proprie. È una laica, bellissima, risposta alle parole di Papa Francesco nel suo discorso al popolo di Cuba: «Chi non vive per servire, non serve per vivere». Racconta, questo libro, del recupero (qualcuno soprattutto all'epoca, avrebbe detto "miracoloso") della "normalità" di alcuni di questi esuli istriani, diventati pazienti psichiatrici, attraverso una riattivazione delle culture e dei luoghi di provenienza, a testimonianza «della natura non esclusivamente medica di una condizione patologica»: «Bisognava ricostruire la storia dell'individuo fuori dagli spazi angusti della cartella clinica...».
Fa bene leggere e sapere che la grande fiducia e speranza basagliana, di cui Giuseppe Dell'Acqua si fa testimone nei fatti e nelle parole, messa al servizio di tante povere creature sradicate dalla loro Istria d'origine, è servita, restituendole alla "normalità", a «ricomporre le fratture della storia e a raddrizzarne il corso, per lo meno a livello individuale».
Fa bene, leggendo questo libro, confrontarsi con un sapere che si affianca, vorrei dire con umiltà, alla vita sofferente degli altri, senza risposte precostituite ma con la volontà di cercarle, queste risposte, proprio nella vita e nel dolore degli altri. Fa bene confrontarsi con la paziente capacità di ascoltare e documentare di Gloria Nemec. Ha detto lo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk: «La grande storia che gli utopisti vorrebbero dirigere è insensible verso le memorie personali. Io invece ho a cuore proprio la memoria personale, perché credo che non possa esistere il presente senza la memoria».
Guardo, come tutti, la tragedia attuale delle centinaia di migliaia di profughi che arrivano in Europa dal Medio Oriente e dall'Africa più profonda. È il presente. Il passato, la memoria di cui si occupa questo bel libro, devono servire anche per leggere e pensare questo presente.
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