Con Bisatti la telecamera entra negli hospice

Il regista sta girando tra Friuli Venezia Giulia, Trentino e Lombardia “Al dio ignoto”, un’opera indipendente sul fine vita

Raccontare la bellezza, e non l’orrore, degli ultimi attimi, dentro e fuori gli hospice che accompagnano le persone alla fine della loro vita: è il tema impegnativo ma cruciale affrontato da “Al dio ignoto”, il film prodotto dalla società triestina Kineofilm che Rodolfo Bisatti sta girando in queste settimane tra Friuli Venezia Giulia, Trentino e Lombardia. Nel cast Laura Pellicciari, Paolo Bonacelli, Krista Posch e Ulrich Tukur.

“Al dio ignoto” è un film indipendente, prodotto da Kineofilm insieme a una quarantina di partner tra fondazioni e associazioni nazionali e internazionali, ed è stato approvato dal Ministero come film sperimentale di ricerca: «L’argomento non è semplice: non tutte le porte si sono spalancate», dice Bisatti, regista e documentarista proveniente dalla scuola di Ermanno Olmi. «Ma la risposta dei partner testimonia quanto ci sia bisogno di parlarne».

Bisatti, di cosa racconta “Al dio ignoto”?

«Di un’infermiera, interpretata da Laura Pellicciari, che lavora in terapia intensiva. Un giorno sua figlia maggiore si ammala e lei non riesce a salvarla. La famiglia vacilla, il marito piange di nascosto, e il fratello prende una deriva personale perché vive un senso di colpa. La madre decide di non scappare più da questa memoria, ma di affrontarla andando a lavorare in un hospice dove, ad aiutarla nella lenta elaborazione del lutto, è proprio il rapporto con i pazienti, tra i quali l’anziano professore interpretato da Paolo Bonacelli. Queste persone, vivendo con intensità ed energia il momento del passaggio, le suggeriscono che la morte è una fase ineluttabile della vita».

Da dove nasce l’idea di raccontare gli hospice?

«Nel 2000 Ermanno Olmi mi ha incaricato di girare un documentario su un hospice, la Domus Salutis di Brescia, e sull’approccio palliativo medico avanzato. L’obiettivo era di spiegare all’allora Ministero della sanità l’importanza di finanziare e promuovere le cure palliative in Italia. Sono stato sei mesi in quella struttura, ho lavorato col personale, intervistato i pazienti. Storicamente, il malato in fase finale dell’esistenza veniva lasciato a se stesso, riconsegnato ai famigliari in prostrazione clinica e psicologica. Negli anni ’50 un’infermiera ha fondato un principio diverso: “anche se non ti posso guarire, ti posso curare”. Con un accudimento consapevole si può rendere accettabile anche questa fase. In Italia si è iniziato a parlare di cure palliative soltanto dagli anni ’80».

Cosa le ha lasciato quell’esperienza?

«Pur di fronte a una situazione così drammatica, io e la troupe stavamo respirando un’aria di grande serenità interiore e pacificazione. Come mai? Perché nel momento estremo della vita, se una persona viene accudita e accompagnata, lascia decadere tutte le cose superficiali e diventa un essere umano. Ho dato concretezza a questo sentimento scrivendo “Al dio ignoto”, tratto da una poesia di Nietzsche».

Il film è ambientato in veri hospice?

«Sì, come nella Casa dei Gelsi a Treviso. Ma gireremo in molte regioni, Val d’Aosta, Veneto, Lombardia, Trentino e Friuli Venezia Giulia, per esempio al Fontanone di Goriuda, a Pordenone in una fabbrica di biciclette sportive. C’è un dispendio enorme di energie fisiche ed economiche, ma speriamo di restituire la dimensione globale del tema».

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