«Cominciò con un violino di caramelle»

Renato Zanettovich, 97 anni, fondatore del Trio di Trieste, ripercorre la sua straordinaria carriera

I suoi manuali di didattica musicale hanno formato generazioni di violinisti italiani. Renato Zanettovich, classe 1921, è noto al grande pubblico per aver fondato il celeberrimo Trio di Trieste, protagonista di oltre 3000 concerti in tutto il mondo.

Le sue dita e il suo archetto hanno dato voce al famoso violino “Guarneri del Gesù”. E ancora l’impegno con la Scuola di Musica di Fiesole, l’Accademia Musicale Chigiana di Siena e la fondazione della Scuola Superiore di Musica da camera, a Duino.

Tre figli e la moglie, compagna di una vita, con la quale ha festeggiato recentemente i settanta anni di matrimonio.

Maestro, lei ha dedicato la vita al violino e alla musica.

«In realtà più alla musica che al violino».

Cioè lo strumento poteva essere un altro?

«Forse sì. Ricordo un episodio della mia infanzia. Quando avevo quattro anni gli zii mi regalarono un piccolo violino giocattolo pieno di caramelle. Lo vuotai e cominciai a suonarlo. A volte penso che se mi avessero regalato un pianoforte, avrei studiato quello. E sarei diventato un pianista».

Che ricordi conserva della sua famiglia d’origine?

«Pochi. I miei genitori si separarono quando io avevo appena 3 mesi. Invece rammento bene mia nonna materna. Mi portava al cinema dove c’era l’orchestra che accompagnava i film. Io non guardavo mai lo schermo ma solo i suonatori. Per “rubare con l’occhio” la loro tecnica. All’inizio suonavo “ad orecchio” e utilizzavo un solo dito della mano sinistra. Poi, a sei anni, entrai al Conservatorio».

Una famosa foto del Trio, vi ritrae ragazzini, con i pantaloncini corti. Avevate la consapevolezza di dare inizio a una delle più belle pagine della storia musicale triestina e italiana?

«Ne eravamo certi. Appena mi sono seduto su quella seggiola ho compreso il mio destino. E anche il valore del Trio. Non eravamo tre talenti fenomenali. Però abbiamo puntato subito ad eccellere e siamo diventati l’unico trio italiano».

Lei è autore e revisore di famosi manuali della didattica violinistica. Qual è stato il filo conduttore di questi lavori?

«L’originalità dei testi. Ho tradotto per primo i “Principi di tecnica” di Galamian. Esattamente come l’autore li ha scritti. Una sorta di “copia e incolla”. Che, proprio per questa scrupolosità, andò subito esaurito».

Tra i suoi allievi ci sono molti pregevoli violinisti italiani, ci ricorda qualche nome?

«Tra gli altri ho dato lezioni a Federico Agostini, Massimo Belli, Lucio Degani, Giancarlo Di Vacri, Maurizio Valmarana e Paolo Rodda. Fu lo stesso Franco Gulli a chiedermi di dare qualche lezione a quest’ultimo. Sono ancora in contatto con loro».

Ci dice il nome di un giovane e promettente violinista triestino?

«Giada Visentin. Le ho dato qualche lezione. Un talento».

Si racconta che lei fosse un insegnante molto severo.

«Lo ero con i miei allievi come con me stesso. Forse pretendevo troppo. Non era facile essere un mio allievo».

Il passaggio dal Conservatorio di Trieste a quello di Venezia?

«Causato da incomprensioni con la direzione triestina. Spesso, a Trieste, ci sono dissapori personali. Che poi danneggiano la città».

Trieste è ancora quel “ragazzaccio aspro e vorace” come “un amore con gelosia”?

«Sì, lo è tuttora. Ma solo nei suoi maggiori talenti. Trieste continua a essere “fuori dal mondo” e credo dipenda soprattutto dalla mentalità dei triestini».

Questa città è stata madre di tanti illustri scrittori. A quale sensibilità si sente più affine?

«A quella di Italo Svevo. Mi piace la Coscienza di Zeno. Ricordo il passo in cui Guido Speier suona la Ciaccona di Bach. Più in generale devo dire che ho letto poco. E mi dispiace. Per lunghi periodi della mia vita non mi interessava. Tutto veniva dopo la musica».

In un mondo che oscilla tra “giovani youtuber” e “vecchie che danzano” lei come si sente?

«Molto male. Faccio lunghe file negli uffici. E magari all’una mi mandano via perché chiudono. Certo, ammetto di non saper usare bene gli strumenti informatici e me ne vergogno. Credo che sia una questione di mentalità, dovuta all’anagrafe. Noto questo aspetto anche nei miei tre figli. Hanno tre mentalità diverse perché sono nati molto distanti uno dall’altro».

Qual è il suo brano preferito?

«La “Danza degli spiriti beati” di Gluck».

Una famosa canzone di Domenico Modugno, cantava l’infatuazione di un’allieva per il suo “Maestro di violino”. Le è mai successo?

«Sì e lo ricordo bene. Tanti anni fa, una mia brava allieva si innamorò di me. Non rivelo il nome anche perché è piuttosto nota. In generale, però, ho separato professione e sentimenti. Non ho mai voluto “farmi intrappolare”».

Lei è curioso, maestro?

«Molto. Ricordo un episodio. Pur non amando il jazz, per mia curiosità ho voluto andare a sentire un pianista famoso, Stefano Bollani. Alla fine del concerto tutti applaudivano entusiasti. Io no. Un suono “plumbeo”. Mi ha fatto venire sonno».

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