Come una musica il volo di Chavez che valicò le Alpi

TRIESTE «Cade, con la sua grande anima sola / sempre salendo. Ed ora sì, che vola!». Così Giosuè Carducci cantò in un’ode dedicata l’impresa di Geo Chavez, l’aviatore peruviano passato alla storia per essere stato il primo a trasvolare le Alpi, il 23 settembre 1910, a bordo di un monoplano Blériot 11, spinto da un motore di soli 50 CV, meno di un ciclomotore. Il volo durò 45 minuti, in fase di atterraggio il Blériot si schiantò al suolo, Chavez rimase ferito e morì tre giorni dopo all'Ospedale San Biagio di Domodossola in maniera non del tutto chiara. Secondo la testimonianza di un altro aviatore suo amico le sue ultime parole furono: "Arriba, siempre arriba" ("In alto. Sempre più in alto"). La sua impresa, e la sua fine, commossero il mondo intero. Anche “Il Piccolo” di allora intitolò intere prime pagine all’avventura di Chavez. Oggi, a 105 anni di distanza da quegli eventi, il regista Fredo Valla ha dedicato alla storia di Chavez un film documentario italo-francese, “Più in alto delle nuvole” (53’), prodotto da Enrica Capra per Graffitidoc (www.graffitidoc.it), Alexandre Cornu per Les Films du Tambour de Soie di Marsiglia, animazioni di Francesco Vecchi e Alessia Cordini, musiche originali di Walter Porro e con la partecipazione straordinaria del cantautore Giorgio Conte, che un secolo dopo Carducci ha consacrato a Chavez la canzone “Géo”, su testi di Carlo Grande (fra l’altro presentata in anteprima al festival Lagunamovies di Grado nel 2013).
Ed è proprio con la canzone “Gèo” che si apre il film documentario, in cui Giorgio Conte nei panni di se stesso si mette sulle tracce del coraggioso aviatore, visitando musei, intervistando esperti, raccogliendo non solo documeti d’archivio ma anche e soprattutto suggestioni e sensazioni per trasformare il fragile volo di cento anni fa in una melodia che ci parla di una sfida lontana in cui si riflettono coraggio e fragilità del nostro vivere quotidiano. Come già nel film “Medusa - Storie di uomini sul fondo”, Valla mischia forme e linguaggi, dai modi della fiction al documento d’archivio, alle testimonianze e interviste dirette, fino all’uso delle animazioni, qui con un più marcato “stile cartoon”. Il risultato è un documentario storico ricco di echi e sfumature, che sa fare leva sulle emozioni senza mai rinunciare al rigore narrativo.
L’ultima avventura di Geo Chavez inizia a Brig, una cittadina del Cantone Vallese, il 23 settembre 1910. In tempi in cui le sfide aviatorie erano all’ordine dl giorno, richiamavano folle e spostavano ogni una gradino più in su l’evoluzione dell’aviazione, dopo giorni di rinvii dovuti al maltempo, due soli concorrenti sono ancora in gara per la prima Traversata delle Alpi, scavalcando il passo del Sempione, a 2008 metri di altitudine. In palio ci sono 70.000 lire. L’aviazione ha solo sette anni: il primo aereo si è levato in volo a un’altezza di tre metri nel 1903, ad opera dei fratelli Wright. In Francia hanno ottenuto il brevetto una cinquantina di piloti in tutto; e l’aero-club di Londra è stato fondato da qualche mese. Nonostant. e i frenetici progressi del neonato “sport” (così è ancora considerato), fino a tutto il mese di luglio 1910 nessun uomo ha mai volato a più di 1000 metri di altezza. E adesso, tutt’a un tratto, la sfida è scavalcare un ostacolo naturale imponente e irto di incognite a più di 2000 metri. I migliori aviatori dell’epoca nicchiano, spaventati dalla difficoltà dell’impresa. Dei dieci iscritti, otto si sono via via ritirati, con pretesti più o meno diplomatici. Restano a Brig solo due piloti: l’americano Charles Weymann, e Geo Chavez, di origine peruviana, ma nato e cresciuto a Parigi da una famiglia di banchieri. I loro aerei sono fragili strutture tenute insieme da corde di pianoforte, senza abitacolo, con ruote di bicicletta come carrello di atterraggio e un motore da barchetta. La virata si fa a mano, grazie alla forza muscolare del pilota. Niente casco, né giacche a vento, e neppure altimetri. Chavez è il solo che possa farcela; suo è il record mondiale di altezza, 2680 metri toccati al campo di aviazione di Issy les Moulineaux, appena due settimane prima della gara, l’8 settembre. Geo ha appena 23 anni. Erede di una grossa fortuna, ha già comprato tre diversi aeroplani; quello su cui tenterà l’impresa, un Blériot 11, è in quel momento il miglior apparecchio sul mercato. Di fronte a lui, Weymann vola su un Farman costruito apposta per la traversata.
La stampa di tutto il mondo segue con il fiato sospeso i progressi dell’impresa. In prima linea ci sono “Il Corriere della Sera”, il cui inviato di punta Luigi Barzini vive per giorni in stretta simbiosi con i piloti, e “Le Figaro”, che ha sul posto il giornalista esperto di aviazione Frantz Reichlin. In Galleria a Milano la folla segue da un grande tabellone le partenze e i tentativi degli aviatori. Il nome degli intrepidi piloti è sulle bocche di tutti, ripetuto da tutte le gazzette, oggetto di tutta la pubblica attenzione del momento. Quel volo incarna il sogno di lasciarsi alle spalle per sempre i limiti della fragilità umana.
La mattina del 23 settembre Weymann parte per primo: tenta di salire ad anelli concentrici per innalzarsi il più possibile. Sparisce fra le nuvole, ma dopo soltanto 13 minuti è costretto ad atterrare. La tensione è altissima, i telegrafi e le poche linee telefoniche rimbalzano la notizia del fallimento. Poi è la volta di Chavez. Sei minuti dopo il rientro di Weymann, Geo Chavez dà ai suoi assitenti il segnale di mettere in moto l’elica. Il Blériot gira sul campo di lancio, poi si stacca da terra. Quattordici minuti dopo la partenza l’aereo di Chavez scompare dietro la cima delle montagne. Quattro minuti più tardi, alle 13.47, Geo Chavez è il primo uomo a oltrepassare le Alpi su un mezzo più pesante dell’aria.
Alle 14.14 l’aereo di Chavez è in vista del campo di atterraggio di Domodossola. Il luogo, che doveva restare segreto, è gremito di spettatori arrivati in auto e in treno da tutto il Nord Italia. A terra i suoi collaboratori hanno disegnato con alcune lenzuola la croce di Lorena, per indicargli il punto più propizio all’atterragio. I contadini accendono fuochi per indicargli il percorso. Chavez, maestro di discese planate, spegne il motore e si lascia scivolare verso l’arrivo. Poi, a poco più di dieci metri dal suolo, ci ripensa, lo riaccende e punta ancora per un istante verso l’alto. È in quel momento che le ali del suo monoplano cedono e si piegano improvvisamente all’insù, facendo rovesciare l’aereo. Il piccolo volante schizza via, l’elica si contorce e si spezza. Chavez precipita a terra dentro la carcassa disfatta del suo aereo, a soli dieci metri dall’arrivo. È ferito ma non ha perso conoscenza; viene portato in auto all’ospedale San Biagio di Domodossola, seguito da un immenso corteo di ammiratori. Ha forti dolori alla spalla e alle gambe, ma le sue condizioni non sembrano così gravi. I telegrafi battono la notizia, che uscirà in prima pagina su tutti i giornali del mondo, della vittoria e della caduta dell’eroe. In ospedale Geo riceve visite, legge telegrammi (tra i primi a congratularsi, lo stesso Weymann) e riesce perfino a festeggiare con lo champagne la notizia che il Comitato ha deciso di assegnargli ugualmente un premio di 50.000 lire. Gli dicono che la città di Domodossola erigerà un monumento sul luogo del suo atterraggio. Ma dal pomeriggio del 25 le sue condizioni peggiorano improvvisamente. La sera del 26, i medici avvisano telefonicamente i fratelli di Geo che le cose si mettono male. Da Parigi il fratello Juan parte con il wagon lit della notte. Arriverà a mezzogiorno, in tempo per abbracciare Geo e per ascoltare le sue ultime sconnesse parole, un frammento delle quali, “in alto, ancora più in alto”, diventerà il motto dell’aviazione peruviana. Il giovane pilota della prima trasvolata delle Alpi morirà alle 14.55 del 27 settembre, lasciando dietro di sé la memoria di una storia che diventa immediatamente mito.
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