Come sono verbosi avvocati e giudici secondo Carofiglio

di MICHELE A. CORTELAZZO
Guido Guerrieri, il noto e fortunato personaggio inventato da Gianrico Carofiglio, è tornato e ha cambiato casa. È uscito da poche settimane, infatti, il nuovo romanzo che lo vede protagonista (“La regola dell'equilibrio”), ma non più da Sellerio, bensì da Einaudi.
Anche la narrazione è diversa da quella dei romanzi precedenti: ci sono meno storia, meno sorprese e colpi di scena (ma quello che porta alla soluzione della vicenda è rilevante), e più riflessioni, sulla vita, sul lavoro di magistrati e avvocati, sull'etica del mondo giudiziario, che poi è lo specchio dell'etica quotidiana di tutti noi italiani.
Tra le riflessioni ce ne sono molte sul linguaggio che si usa nei tribunali. Già in “Ragionevoli dubbi”, Carofiglio mette in bocca all'avvocato Guerrieri un ragionamento sulla natura testuale dell'attività giudiziaria.
«Che facciamo, alla fine dei conti, nei procedimenti penali?... Raccontiamo storie. Prendiamo il materiale grezzo costituito dagli indizi, lo mettiamo insieme, gli diamo struttura e senso in storie che raccontino in modo plausibile fatti del passato. La storia è accettabile se spiega tutti gli indizi, se non ne lascia fuori nessuno, se è costruita in base a criteri di congruenza narrativa».
Guerrieri espone una prospettiva molto moderna, che nei casi peggiori assume i connotati della moda: il concetto, o la metafora, della narrazione pervade diversi settori professionali, dalla politica e il marketing con lo storytelling, alla medicina, con la medicina narrativa, al diritto, dove l'idea che il discorso giudiziario sia il regno dell'argomentazione viene sostituito dall'idea che l'attività processuale sia la costruzione di una storia.
Le riflessioni presenti nell'ultimo romanzo sono molto più critiche. A cominciare dalla denuncia della verbosità, della prolissità, della tendenza all'amplificazione. La prima ad apparire verbosa è la giudice che rigetta una richiesta di arresto dell'assistito di Guerrieri. La giudice è dipinta come magistrato corretto e competente.
Ma la sua scrittura risponde ai canoni tradizionali della scrittura giudiziaria: «Gli stessi concetti, per cui erano state usate centinaia di parole, potevano essere riassunti in poche frasi... I giuristi, con rare eccezioni, sono inconsciamente e tenacemente contrari alla chiarezza e alla sintesi».
Lo stesso difetto lo ha il giovane, e non apprezzato, praticante, che, oltre a cambiarsi poco frequentemente la camicia, scrive frasi come «Voglia la signoria illustrissima compiacersi di disporre il sequestro in via di urgenza...» (e c'è coerenza, a mio avviso, tra la sporcizia personale e la sporcizia della scrittura).
Lo ammaestra Guerrieri: «È sufficiente: "si chiede il sequestro in via d'urgenza". Se incontri un pubblico ministero, intendo la persona in carne e ossa, gli dici: buongiorno "signoria vostra illustrissima"?».
Prolisso è anche il discorso orale: per semplice incapacità, ma anche per inconfessabili ragioni economiche. Spiega Guerrieri che a volte l'andamento del dibattimento fa capire a tutti che l'imputato verrà assolto. Non occorre che il difensore si esibisca in arringhe lunghe e particolarmente elaborate.
Ma cosa accade se l'imputato è presente in aula? L'avvocato deve giustificare ai suoi occhi l'onorario che gli chiederà: «Se parli cinque minuti è molto probabile che lui, una volta assolto, discuta l'ammontare della parcella. Dunque bisogna parlare, a lungo, con indignazione per quello che ha finora ingiustamente patito l'imputato, sfoderando dotti riferimenti giurisprudenziali e invocazioni alla giustizia».
Alla base dell'inefficienza del linguaggio usato dai giuristi ci sono, dunque, questioni che vanno al di là della capacità e della volontà degli operatori del diritto: le attese del cliente, come in questo caso, ma anche l'abitudine acquisita nelle aule universitarie. Ogni studente di giurisprudenza impara una vera e propria lingua straniera, anche se condivide con l'italiano gran parte delle regole costitutive.
È «una lingua sacerdotale e stracciona al tempo stesso, in cui formule misteriose e ridicole si accompagnano a violazioni sistematiche della grammatica e della sintassi», «tanto più apprezzata quanto più è capace di escludere i non addetti ai lavori dalla comprensione di quello che avviene nelle aule di giustizia e di quello che si scrive negli atti giudiziari».
Il guaio è che se un avvocato, un giudice o un commissario di polizia non usa questa lingua sacerdotale e stracciona non viene riconosciuto come uno del mestiere, uno a cui dare credito. Così, fa parte della formazione universitaria, ma anche dell'apprendistato negli studi legali, acquisire, meccanicamente e acriticamente questo linguaggio.
Come nota Carofiglio-Guerrieri a proposito del giovane praticante: «Nei suoi primi sei mesi di pratica, in un altro studio legale, gli avevano inculcato alcuni insegnamenti come fossero verità di fede. Fra questi, che negli atti giudiziari, e in particolare quelli rivolti a un magistrato, si scrive in quel modo. Adesso si sentiva dire che, forse, non era proprio così».
Già non è proprio così, o non dovrebbe essere così. Anni fa si usava parlare della distanza tra paese legale e paese reale. Qui possiamo certamente parlare, ed è lecito farlo con disprezzo, della distanza che intercorre tra linguaggio legale e linguaggio reale. Il linguaggio legale non è solo incomprensibile, è anche inefficiente.
Con la sua prolissità e ridondanza, con il suo ripetere più e più volte la stessa cosa, con l'aiuto sempre più frequente del copia e incolla, contribuisce a rendere meno rapida e efficiente l'attività giudiziaria.
C'è un grande bisogno, proprio per modernizzare e ottimizzare la giustizia italiana, di modernizzare e ottimizzare anche il linguaggio.
Ma temo che sia una battaglia destinata alla sconfitta. Quando penso alla lingua dei giuristi si manifesta in me la stessa disposizione mentale di Elena, professoressa di Letterature comparate, un personaggio secondario del romanzo: «Sì, direi che ho un consistente pregiudizio verso il ceto dei giuristi».
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