Claudio Venza «Sognavamo un sapere senza più gerarchie»
TRIESTE Nel gruppo “Quelli del ’68” c’è Claudio Venza, ex docente universitario di storia della Spagna moderna, che partecipò al movimento studentesco fin dall’inizio. Di formazione cattolica, Venza ben presto sentì di non poter appartenere a un mondo che mal tollerava le critiche e non consentiva di sviluppare un proprio libero pensiero. «Pretendevo di “capire troppo”, cioè mi ponevo troppe domande - spiega - e volevo avere accesso a tutte le fonti di conoscenza dell’epoca. Ma per la gerarchia cattolica, erede diretta della Santa Inquisizione, l’Espresso era un giornale maledetto e Buñuel un regista all’indice».
Come e dove iniziò il suo Sessantotto?
«Nel ’68 ero un indipendente di sinistra, uscito qualche anno prima dalla chiesa cattolica con un grande trauma, che però mi servì per non entrare in altre chiese, e il riferimento è al PCI, con i loro preti-burocrati, le loro idee inamovibili, la dottrina autoritaria, la fede cieca nei dirigenti, la gerarchia soffocante. Ma anche se non tolleravo i preti feci volentieri un’eccezione per Don Milani: le sue “Lettere a una professoressa” e “L’obbedienza non è più una virtù” furono testi di riferimento per molti di noi. Il mio ’68 iniziò proprio con l’occupazione di lettere, che portai avanti con la mia compagna di allora, Clara Germani. A inizio febbraio partecipai a un’assemblea convocata da varie formazioni di sinistra: si parlava dell’occupazione del ’67 nelle università di Trento e Torino e cominciava a circolare lo slogan “potere studentesco”, con l’idea di rovesciare la gerarchia esistente e dare un ruolo da protagonisti agli studenti».
Perché a Trieste si partì con l’occupazione di Lettere?
«Perché lettere all’epoca era nota come “facoltà rossa”, perciò fu più facile iniziare da lì. Io in realtà ero iscritto a economia, perché avevo fatto ragioneria e allora l’unico sbocco possibile era quello, anche se avrei tanto voluto studiare sociologia: solo nel ’69, grazie ai movimenti studenteschi, l’accesso all’università venne reso libero. L’occupazione di lettere fu ideologica e di rottura dell’equilibrio istituzionale: le rivendicazioni sindacali esplosero solo più tardi, nel 1970, quando ad essere occupata, con numeri decisamente più importanti, fu la sede dell’Università nuova, in Piazzale Europa.
Ma questa prima occupazione, che durò una quindicina di giorni e coinvolse un centinaio di persone, ci fece pensare che fosse davvero possibile cambiare l’università per viverla in modo diverso. Furono giorni intensi, in cui al posto delle lezioni furono proposti gruppi di studio, discutendo dei temi più svariati, dalla cultura alla politica alla programmazione economica. Anche se l’ideologia dominante fu il marxismo nelle assemblee fu data a tutti libertà di parola. Fu la prima esperienza di scuola autogestita e basata su principi egalitari. E furono giorni molto belli: inaugurammo la mensa degli occupanti di lettere, con la Cgil che ci portava sacchi di patate: si mangiava discretamente bene. E per praticare il libero amore, che chi era già in coppia non praticava moltissimo, c’era la stanzetta della donna delle pulizie, che dotammo di materasso pneumatico».
Quali le rivendicazioni portate avanti dal movimento?
«Volevamo liberare gli studenti dalle umiliazioni. Gli esami per noi lo erano, perché costruiti in base al rapporto gerarchico per cui vi era un essere superiore chiamato a giudicare tutti gli altri. Volevamo abolire gli esami e trasformare il modo d’intendere la conoscenza, che si acquisisce in una situazione di libertà, interesse, partecipazione e non attraverso lezioni frontali. Avevamo toccato con mano la dipendenza dall’istituzione ed eravamo in ansia per la risoluzione di problemi decisamente pratici, legati a quello che oggi si chiama diritto allo studio: case per i fuorisede, accesso alla mensa, tasse universitarie. Tutti questi temi poi sarebbero tornati con maggior forza nel 1970, con l’occupazione dell’Università nuova: fu il periodo delle assemblee studentesche da 800 persone e dei cortei di centinaia di studenti che sfilavano nel cuore della città».
Che rapporto vi fu tra il movimento e la goliardia?
«Pessimo. Li giudicavano fiancheggiatori dell’istituzione e nemici del movimento, perciò decidemmo di spazzarli via. Nel’68 all’università nuova e soprattutto a Economia i goliardi intimidivano e vessavano con atti di bullismo le matricole. Quelli del primo anno dovevano stare al gioco crudele degli anziani: per entrare nella società adulta era necessario accettare le regole gerarchiche. Le matricole venivano portate in un’osteria, in Carso, spogliati e sottoposti a varie umiliazioni. I goliardi erano studenti a cui era stato permesso un falso anticonformismo in Università - potevano lanciare i colombi bianchi all’inaugurazione dell’anno accademico e vestirsi in modo buffo - funzionale alla gestione del potere. Si dichiaravano apolitici ma in molti avevano simpatie parafasciste».
Che giudizio politico darebbe del ’68?
«Nel ’68 accadde qualcosa che oggi sembrerebbe impensabile: fu una grande presa di coscienza collettiva basata sul principio per cui il miglioramento non può essere individuale, ma solo d’insieme, della società. L’idea di controbilanciare il potere costituito poi si estese anche al di fuori della scuola, nelle fabbriche, con il movimento operaio. E questo primo movimento della società civile contribuì alla rottura di dogmi che parevano inossidabili: arrivò la legge sul divorzio e quella sull’interruzione di gravidanza».
Come influì questo momento storico nella sua vita successiva?
«Dopo il ’68 valorizzai il contatto con Umberto Tommasini, che aveva fuso la speranza del nuovo movimento collettivo con le idee ben più antiche di Bakunin: il movimento più vicino all’antiautoritarismo era l’anarchismo. Facendo il docente poi ho vissuto “dall’altro lato della barricata”, ma ho sempre cercato di portare avanti le istanze in cui credo anche oggi. La sfida per me è sempre stata quella di riuscire a suscitare interesse tra i miei studenti pur abolendo le misure repressive. Il più grande fallimento della scuola sono gli studenti che dopo averla frequentata bruciano i libri: un libro non può essere fonte d’infelicità».
(1-Continua)
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