Claudio Magris: «Nessuno di noi può dirsi innocente per l’inferno della Risiera»

Lo scrittore dialoga con Ferruccio de Bortoli in chiusura di Bookcity domenica a Milano
Claudio Magris
Claudio Magris

TRIESTE È il volto buio di Trieste che risplende sopra tutto nel nuovo romanzo di Claudio Magris. Una colpa mai confessata che attira l’attenzione del lettore, lo inchioda alle pagine di “Non luogo a procedere”. E lo porta a scoprire i troppi silenzi, le imbarazzanti connivenze, le macroscopiche distrazioni che hanno accompagnato la creazione e la distruzione della Risiera. L’unico campo di sterminio italiano piazzato a ridosso della città, che nessuno sembrava vedere. Anche se dal camino dello stabilimento, dove un tempo si effettuava la pilatura del riso, usciva un fumo denso, scuro, appiccicoso. Prodotto dai corpi dei prigionieri, ebrei e non, che venivano bruciati nel forno crematorio.

È il cuore di tenebra di una città connivente. Che ha stretto le mani degli assassini senza farsi troppi scrupoli. Che ha cancellato le scritte dai muri della Risiera, con uno strato di calce, per occultare l’identità dei delatori, di chi era complice degli assassini nazisti. Ed è proprio sulle tracce di quelle facce, senza nome solo per chi non vuole sapere, non vuole ascoltare, che si mette il protagonista di “Non luogo a procedere”, il nuovo romanzo di Claudio Magris pubblicato da Garzanti undici anni dopo “Alla cieca”: un bizzarro collezionista di armi e mezzi da guerra, che si fa contagiare dall’ossessione di salvare in una babelica raccolta tutto quello che rischia di essere cancellato dalla memoria.

Ma questa è solo una delle storie che brulicano nel romanzo-mondo di Claudio Magris (a destra, nella foto di Yuma Martellanz con il suo cane Jackson). Un libro dalla ricchezza tematica, narrativa, stilistica davvero impressionante. Dove il sogno di creare un Museo della guerra per la pace si incrocia, in uno splendido controcanto, al destino della sua curatrice, Luisa Brooks, erede dell’esilio ebraico e della schiavitù dei neri. Figlia di Sara, che vive senza perdonarsi di essere sopravvissuta alla Shoah, e del sergente afroamericano Brooks, arrivato a Trieste con la 92.a Divisione di soldati Usa. Che troverà amore e salvezza dalla guerra in riva all’Adriatico, ma finirà per morire in un banale incidente sulla pista dell’aeroporto di Aviano.

Claudio Magris sarà ospite domenica della serata di chiusura del Festival Bookcity a Milano. Al Teatro Parenti, alle 21, verrà intervistato da Ferruccio de Bortoli su “Il volto oscuro del Novecento”.

Attorno al professore di “Non luogo a procedere”, che riporta alla memoria la figura del collezionista triestino Diego de Enriquez, germinano decine di sottotrame, di destini che si consumano nello spietato teatro della vita.

Diego De Henriquez
Diego De Henriquez

«Senza Diego de Henriquez non ci sarebbe il mio romanzo - spiega Claudio Magris -. Ma è anche vero che il personaggio di “Non luogo a procedere” è totalmente inventato. Tutto quello che gli attribuisco nasce dalla mia fantasia. La prima idea di scrivere il libro mi è venuta nel 2009, quando mi hanno assegnato il Premio per la pace a Francoforte. Lì ho cominciato a pensare che poteva saltar fuori una bella storia raccontando l’ossessione di una persona per la guerra, per le armi, per il collezionismo».

Del resto, non è così segreto l’interesse di Magris per la mania. «Basterebbe ricordare l’ingegner Neweklowsky che racconto in alcune pagine di “Danubio”. Lui ha dedicato la sua intera esistenza alla scrittura de “La navigazione e la fluitazione del Danubio superiore”. Tre volumi in cui elenca con inflessibile precisione gli itinerari, i nomi delle imbarcazioni, i vortici e le secche, le superstizioni e le storie che ruotano attorno al fiume. Perfino la pena che toccava ai cuochi di bordo se mettevano troppo sale nella minestra».

Una simile follia non poteva lasciare indifferente il Magris scrittore. «Quei tre volumi li ho voluti pesare: dichiaravano 5 chili e 900 grammi per 2564 pagine. Un mio lettore, poi, mi ha detto: “Certo che anche lei dev’essere strano, come le è saltato in mente di pesarli sulla bilancia in cucina?”. Nella mania c’è un aspetto negativo, perché rischia di inaridire, di portare le persone all’idolatria per gli oggetti desiderati. Però contiene in sé una grande forza, l’assoluta dedizione. Chi colleziona francobolli, ad esempio, sa che non spariranno mai. E in questa certezza ribadisce con caparbia la difesa della propria individualità. Senza dimenticare che per gli antichi greci la mania era un dono divino. Per chi, ad esempio, veniva posseduto dal tormento e dall’estasi della poesia».

Accanto alla lucida follia del collezionista, ci voleva la caparbia volontà di una donna. «Questo romanzo non sarebbe mai nato se non ci fosse stato il controcanto di Luisa - confessa Magris -, che porta in sé le stigmate dell’esilio ebraico e della schiavitù dei neri. Mi piace molto il suo interesse per la “négriutude”, per le tradizioni, le canzoni del mondo caraibico. E non avrei potuto appassionarmi alla storia del collezionista, che finisce per raccattare le gomme americane masticate, per segnarsi anche le scritte oscene sui muri, se non avessi sentito in lui il desiderio non tanto di cercare i nomi degli assassini della Risiera. Ma, piuttosto, di dare un volto ai “neutri”. Alle persone che hanno stretto mani insanguinate senza mai farsi domande. E senza provare il minimo ribrezzo».

Magris tra i fantasmi di Trieste inseguendo un’ossessione che fa rivivere de Henriquez
Claudio Magris

Anticamera dell’Inferno, come la definisce Magris, la Risiera è diventata presto un buco nero nella memoria. «Non credo che Trieste abbia un’anima più buia di tante altre. Come non credo vada enfatizzata, esaltata la sua multiculturalità. Voglio ricordare che Giorgio Bassani ha raccontato nelle “Storie ferraresi”, molto più importanti del “Giardino dei Finzi Contini”, cose tremende sulla sua città. Però è vero che io stesso, della Risiera sapevo molto poco. Si parlava sempre della banda Collotti, dei torturatori di Villa Triste, e non ci si soffermavano mai sul fatto che alla Risiera venivano ammazzate, bruciate persone, in un grande silenzio».

Dentro quel buco nero della memoria sono finite storie imbarazzanti. Come quella del podestà Salem, ebreo e fascistissimo. Di tanti delatori. «Credo nella fedeltà, nella lealtà - dice Magris -. Proprio per questo mi colpisce la figura di chi tradisce. Credo anche nel peccato originale. Non nella più carnale, banale versione della ribellione di Adamo e Eva. Mi colpisce il fatto che ogni uomo venga al mondo con il peso enorme sulle spalle della colpa altrui. È per questo che adesso nessuno può rivendicare la propria innocenza considerando che, negli anni della Seconda guerra mondiale, qualcuno ha denunciato un suo simile. Lo ha mandato a morire senza insanguinarsi le mani».

Storie di armi, di personaggi diversissimi, si intrecciano nel libro. «Le armi raccolte dal collezionista si sono rivelate una specie di lampada di Aladino: ogni volta che ne nomini una, salta fuori un racconto straordinario. Come la lancia dei Chamacoco, che ricorda gli indios del Paraguay. Fondamentale per il mio romanzo è stato anche il personaggio di Luisa de Navarrete. Mi ha colpito la forza di questa donna, una nera del ’500 andata in moglie a un bianco, accusata di stregoneria, che rischiava di essere bruciata sul rogo. Sono andato a vedere i verbali dell’interrogatorio. E lì si resta a bocca aperta scoprendo che Luisa, quando le faceva comodo, giocava la carta della donna sottomessa. Per fare colpo sui giudici dell’Inquisizione».

“Non luogo a procecedere” ha avuto tre versioni abbastanza diverse tra loro. Oltre a una mole impressionante di revisioni, di correzioni. «Ho studiato la grammatica della lingua dei Chamacoco, il funzionamento delle armi. Io scrivo al caffè, in treno, a casa. A volte, però, mi trovavo in viaggio e non avevo tutte le carte con me. Pronto per completare un capitolo, non riuscivo a proseguire la storia senza consultare alcuni passaggi che, nel racconto, vengono prima».

Un lavoro doppiamente ciclopico, considerato che Magris continua a scrivere a mano. «Il fatto di non usare il computer non è una civetteria - assicura -. Ma è come se dicessero a un uomo che cammina con una stampella di mettersi a correre. Purtroppo, sono totalmente inadeguato per le nuove tecnologie. E per di più ho anche una calligrafia difficile da decifrare. Così devo dettare il testo al registratore e riversarlo su delle audiocassette vecchio tipo. Per fortuna, poi, ci sono due persone che ribattono il testo in video»

Una lingua tesa, mutante, dirompente eppure delicata, quella che scorre come lava incandescente nelle vene di “Non luogo a procedere”. «Servivano scritture diverse per un romanzo così - ammette Magris -. Luisa non può parlare come il collezionista, ossessionato dall’idea di sconfiggere la Morte. E servivano parole ancora diverse per descrivere il funzionamento delle armi. Sono d’accordo con Raffaele La Capria quando dice che i capolavori del ’900 sono libri falliti. Perché hanno dovuto assumere su di sé l’impossibilità di comprendere il mondo. Per Victor Hugo era tutto più facile: la sintassi dei “Miserabili” non è molto diversa da quella degli scritti contro Napoleone III. Per Franz Kafka, al contrario, sarebbe stato impossibile usare lo stesso stile della “Metamorfosi” per mandare un messaggio di solidarietà sociale ai minatori della Slesia. Oggi, penso che per uno scrittore sia ancora più difficile. Io amo l’armonia, l’ordine, ma non posso non accorgermi dello sconquasso che ci circonda. Non basta dire certe cose, bisogna trovare le parole giuste per farle sentire al lettore».

A adesso? «Mi sento completamente svuotato - confessa Magris -. Posso scrivere degli articoli, certo, ma niente di letterario. È come se nel serbatoio della mia macchina narrativa non ci fosse più una sola goccia di benzina».

alemezlo

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