Cinquant’anni fa il suicidio di Paul Celan Nei suoi “Microliti” il dolore di una vita

Mary Barbara Tolusso
Era il 27 giugno del 1942 quando nel capoluogo dell’austroungarica Bucovina – oggi in Ucraina – il poeta romeno Paul Celan tentava di convincere i genitori ad andare con lui in un buon nascondiglio per sfuggire ai rastrellamenti nazisti che si sarebbero compiuti il giorno dopo. Litigò tutta la notte con il padre. I genitori non lo seguirono. Quando Celan rientra a casa trova la porta sbarrata. Non li avrebbe più rivisti. Il padre morì nell’autunno di quello stesso anno e la madre poco dopo fu fucilata nel campo di concentramento di Michailovka. Da quel momento la vita di Celan si trasforma in un’eterna fuga, non solo dai nazisti. Si sposterà a Bucarest, poi Vienna e infine Parigi, dove il 20 aprile del 1970 si getterà nella Senna.
A cinquant’anni dalla morte dell’autore di “Fuga di morte”, è ancora difficile fare i conti con la sua complessità, la sua vita e la sua opera, tanto che la più esplicita dichiarazione di poetica, “Der Meridian” (“Il Meridiano”), pronunciata in occasione del Premio Büchner nel 1960, è indubbiamente tra le più spinose e azzardate del ’900. Celan riserva alla poesia un percorso arduo, linguistico e filosofico, determinato da molti fattori. A iniziare dalla lingua madre, il tedesco, allora vista (anche) come lingua degli assassini. Ma non è solo questo. Indubbiamente a influenzare il suo “meridian” furono anche le accuse di plagio di Claire Goll, vedova del poeta Yvan Goll che Celan tradusse nel 1949. Fu chiamato l’“affaire Goll” e fece molto scalpore, non furono pochi i grandi intellettuali che si misero dalla parte di Celan con analisi che evidenziavano l’autenticità del poeta romeno.
Ma è anche vero che la sua idea di poesia (il fatto che non possa essere ridotta a sapienza tecnica), forse deve qualcosa a quelle accuse. Un’altra fetta di critica tedesca lanciava altri rimproveri: «Lo accusa di plagiare il suo proprio vissuto, la tragedia dei genitori ebrei morti in un campo di concentramento, sfruttandolo poeticamente, ovvero estetizzandolo». Lo ricorda Dario Borso nella nuova edizione critica di “Microliti” (Mondadori, pagg. 216, euro 20), in libreria da maggio. “Microliti” è un’opera che si discosta dagli altri testi, è una sorta di risposta a vari temi che sentiva urgenti – questioni di poetica per lo più – frammenti o in brevi prose che risentono indubbiamente dell’influenza kafkiana. Lo stile è soprattutto epigrammatico, “lapidar”, lo definisce lui, benché ne parli come di «pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso dell’esistenza», che tanto minuscoli non sono se pensiamo ai microliti dedicati, per esempio, ad Adorno, il filosofo che all’opera di Celan aveva risposto con un perentorio: «Nessuna poesia dopo Auschwitz». Ecco cosa risponde Celan: «Nessuna poesia dopo Auschwitz (Adorno): cosa viene posto qui come idea di “poesia”? La spocchia di chi si pone a considerare o rappresentare ipotetico-speculativamente Auschwitz da una prospettiva a volo d’usignolo o di tordo». E d’altra parte, dopo Auschwitz, si può scegliere il silenzio?
“Microliti” contiene anche aforismi più lineari quando scrive, ad esempio, che in fondo chi non si aspetta la poesia, neanche la riconosce. O ancora quelli sulla “naturale” oscurità della quinta musa e l’ambigua soglia del suo egocentrismo. Leggendoli si entra nel complesso mondo dell’autore, la sofferenza di un’intera vita, anche per la saggia scelta di ordinare questi scritti cronologicamente.
Quel suo destino umano e poetico era già tutto dentro quel capolavoro mirabilmente letto da Giuseppe Bevilacqua che è il ciclo di “Svolta del respiro”, dove Celan percorre una faticosa simbiosi con quella madre che è autentica traccia: “Dove divampa un verbo, che sia d’entrambi/ testimonianza?/ Tu – interamente,/interamente vera. Io – pura follia”, cristalli altissimi che rimangono la più profonda riflessione in versi sull’Olocausto. Con buona pace di Adorno. —
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