Cinquant’anni fa il primo “Autunno caldo” l’epoca delle lotte per il lavoro

Nel settembre del 1969 scioperi e manifestazioni in Italia  Lo raccontano Ada Becchi e Andrea Sangiovanni 

la recensione



Cinquant’anni non sono pochi, ma è davvero tutto cambiato da quel settembre 1969. Erano giorni tumultuosi, con l’Italia percorsa da scioperi e cortei. L’agenda di quel mese era fittissima: 1 settembre, cassa integrazione per decine di migliaia di lavoratori della Fiat, 11 settembre, sciopero nazionale dei metalmeccanici, 12-13 settembre sciopero nazionale degli edili, 24 settembre, serrata alla Pirelli. Era l’”autunno caldo”. Questa espressione, attribuita al segretario socialista De Martino e diventata immediatamente virale, racchiude la stagione di rivendicazioni sindacali che, preso avvio dal rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, si allargò a macchia d’olio agli altri comparti produttivi per infiammare i settori del pubblico impiego e quelli dei servizi. Come per un effetto domino in piazza ci andarono tutti. Operai, impiegati, postini, insegnanti, infermiere, baristi. Montava una rabbia sociale che chiedeva non solo aumenti di salario e condizioni di lavoro migliori, ma più in generale esprimeva una rivolta contro le gerarchie, le gabbie sociali di una società ancora rigida e chiusa. Era l’onda della protesta che arrivava dalle università e dalle scuole, erano gli studenti che si univano agli operai nella lotta, era il Sessantotto che, unico caso in Europa, da noi non si era spento dopo pochi mesi ma era scivolato avanti come una placca tettonica, trovando nelle fabbriche terreno fertile per moltiplicare quelle istanze di riforma che il paese reale chiedeva, inascoltato, una rigida classe politica che non comprendeva che le cose stavano cambiando in fretta.

A vedere quei cortei, che sfilavano tra le luci gialle delle periferie di Milano e Torino, salta agli occhi come oggi manchi proprio quel lavoro che allora, pur declinato in una concezione fordista, era una certezza da conquistare e da difendere, e che invece negli ultimi trent’anni si è modificato, è diventato liquido fino quasi a scomparire. E con la disgregazione del mondo del lavoro, che era uno dei pilastri dell’ordine sociale, sono seguiti la cancellazione del lavoratore dall’orizzonte pubblico, la crisi rappresentanza sindacale, il depauperamento del ceto medio. Insomma, quella che si è prodotta in questi cinquant’anni è stata una grande mutazione antropologica e culturale.

Per indagare questo processo, e non solo per un esercizio di sterile amarcord, Donzelli ha pubblicato “L’autunno caldo”(pagg. 134, 18 euro) di Ada Becchi, che partecipò a quelle vicende come funzionario nazionale della Fiom, e Andrea Sangiovanni, storico contemporaneista all’Università di Torino, per il quale “l’autunno caldo nasceva dalla combinazione di una serie di fattori, dalle tensioni che si erano accumulate nelle fabbriche negli anni precedenti al rinnovo dei contratti, dal definirsi di una nuova’generazione’operaia fino a una più ampia richiesta di dignità da parte dei lavoratori”. Un processo di lunga durata che aveva visto i primi bagliori all’inizio degli anni Sessanta a Torino, e che ha avuto tra i suoi meriti la capacità di rimettere in connessione le fabbriche con la società e viceversa. Non a caso film come “La classe operaia va in paradiso” o, sul versante della commedia, il “Mimì metallurgico” della Wertmüller, giungono a suggellare questo dirompente protagonismo operaio.

Un anniversario che però sta passando quasi sotto silenzio. A differenza del Sessantotto, all’ “autunno caldo” non sono state dedicate celebrazioni. Forse perché, rispetto agli anni’formidabili’adorati da Mario Capanna, qui trovarono espressione fermenti che già viravano al nero. Era l’alba della strategia della tensione e degli anni di piombo. La stagione degli scioperi si chiudeva con la conquista di nuovo contratto, più soldi e la settimana di 40 ore, ma anche con la bomba di piazza Fontana. E le grandi riforme che chiedevano i sindacati su sanità, scuola e sistema fiscale, rimasero lettera morta. —

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