Cinquant’anni fa a Trieste la scomparsa improvvisa di Miela Reina la visionaria
Il 15 gennaio 1972 un malore costò la vita alla giovane pittrice e creativa
una delle voci più innovative e originali dell’arte giuliana del secondo Novecento
TRIESTE. Esattamente cinquant’anni fa, il 15 gennaio 1972, Trieste perse Miela Reina, a soli 36 anni, una delle voci più importanti e significative dell'arte triestina del secondo Novecento. “La sola artista dell'area giuliana - scrisse Gillo Dorfles in ‘Preferenze critiche. Uno sguardo sull’arte visiva contemporanea’ (Dedalo, 1993) ad aver creato, nella breve stagione che va dagli anni Sessanta ai Settanta, un'opera non solo degna di essere ricordata e studiata, ma degna di essere considerata come una solitaria e inimitabile avventura della fantasia”.
Carlo de Incontrera, affermato musicista, musicologo e organizzatore di importanti eventi e stagioni musicali, dal Piccolo Teatro di Milano al Mittelfest, dalla Scuola Normale di Pisa al Teatro di Monfalcone, è stato dal ’68 alla morte di lei, assieme anche al pittore Enzo Cogno, uno dei suoi più stretti amici e compagni di lavoro in una consuetudine d’incontri giornalieri.
Qual è il primo pensiero che le viene in mente ricordando Miela oggi?
«Provo una straordinaria dolcezza, grande nostalgia e profonda tristezza perché ciò che accadde mezzo secolo fa fu spaventoso: lei si sentì male a Gorizia, la mattina alle 7.30, a scuola. In ambulanza capirono subito che era emorragia cerebrale e la portarono all’ospedale di Udine, ma, quando Cogno e io arrivammo alle 7 del mattino successivo, era già deceduta. Da allora vivo in una casa in cui sono circondato dalle sue cose: mi addormento con molte sue opere attorno e così mi sento quasi come un bambino in una culla».
Come vi eravate conosciuti?
«Quando nei primi anni ‘60 lei e Cogno avevano aperto la Galleria La Cavana, mi chiesero di lavorare assieme e con Doriano Saracino, mio compagno al Conservatorio, creammo una musica di sottofondo a una mostra di arte programmata. Fu l’inizio di una collaborazione molto stretta e di una reciproca grande simpatia e, quando dopo un anno e mezzo, chiusero quello spazio, poiché non potevano sostenerne da soli l’onere, e io nel mentre avevo creato assieme a compagni del Conservatorio il movimento “Arte viva”, mi preoccupai d’incamerare subito Enzo e Miela nel nostro gruppo musicale, che in quel momento si apriva anche alle altre arti. Così loro continuarono le attività, organizzando esposizioni nel Ridotto del Verdi, dove noi facevamo concerti di musica contemporanea fino a quando, grazie a Gillo Dorfles, abbiamo avuto da Giangiacomo Feltrinelli uno spazio nel suo centro in Galleria Protti. In una collaborazione sempre più fitta e attenta, all’interno di Arte Viva abbiamo poi creato Raccordosei con Miela, Cogno, Palcic, Chersicla, Perizi e la Caraian, che si erano riuniti per fare delle collettive assieme. Continuando a “importare” arte, al Centro Feltrinelli organizzammo per esempio la prima mostra di Arte povera, mostre di architettura di Aldo Rossi e Guido Canella con Semerani e Gigetta Tamaro, di poesia visiva, di Getullio Alviani, ma anche eventi di produzione propria».
E in tale contesto Miela maturò un’importante svolta linguistica nella sua pittura…
«Passò da un mondo inizialmente figurativo e un po’ espressionista - era il periodo dei suoi amori per la Spagna e la Sicilia (da cui proveniva il padre, provveditore agli studi, mentre la madre Aurelia Cesari era una giornalista molto in auge a Trieste) - verso un’inclinazione sempre più espressionista e visionaria, ma nel ‘67 ci fu un capovolgimento: gli stessi personaggi che in quel momento erano diventati una sorta di alfabeto della sua pittura, il paracadutista, la donnina con il cuore in bellavista, coppia d’innamorati tra i leit motiv della sua arte, furono trasformati attraverso un segno netto, pulito. E per il Festival internazionale di Fantascienza di quell’anno lei creò quel monumento al paracadutista che ora si trova nel foyer del Rossetti. Simbolo di tale momento di transizione è il disegno “Decadimento della pittura”, con il colore che cola in un box, dov’essa potrebbe essere concettualmente recuperata».
Da questo periodo prese il via la vostra collaborazione…
«Le chiesi di comporre insieme un’opera teatrale da camera, con lei che agiva direttamente sul palcoscenico e creava la scenografia in tempo reale. Rimase molto sconcertata perchè aveva “le sue scontrose grazie”, ma accettò e nel ’68 debuttammo al Ridotto del Verdi con Liebeslied (Canto d’amore, testi di Emilio Isgrò). Da quel momento gran parte delle opere di Miela può essere definita “pittura teatralizzata”, non solo da guardare ma in cui si poteva entrare: installazioni, lavori in movimento, di cui ci si poteva impossessare e con cui giocare. Come accadde con la grande mostra “Arte Viva”, che facemmo al Costanzi, completamente rivestito da Alviani da lamiere convesse e concave, dove si riflettevano le installazioni di giovani artisti poste nello spazio centrale e, tra queste, le docce in stoffa e gommapiuma di Miela».
C’è in programma qualche manifestazione per questo anniversario?
«Oggi Trieste ospita una o due sue opere al Revoltella, che vengono esposte a rotazione, una all’Itis, due al Teatro Miela e due al Teatro Rossetti, nel cui presidente Francesco Granbassi ho trovato molta solidarietà riguardo a una bozza di progetto che ho ideato nella speranza di poter dare un giusto ricordo di Miela in questa occasione: spero tra l’altro di realizzare anche un nuovo libro su di lei perchè il 2022 sia l’anno di Miela a Trieste».
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