Chi sono i “forgotten men” che la globalizzazione spinge verso i populismi

Esce per Guida Editori “Diseguali. Il lato oscuro del lavoro” di Ernesto Paolozzi, docente di Storia della filosofia contemporanea, e Luigi Vicinanza, direttore de “Il Tirreno”.
LUIGI VICINANZA
La lotta di classe nel mondo globalizzato viene rappresentata come un non senso. Un residuato ideologico dell’Otto/Novecento. Antiquariato politico così come certi strumenti di produzione sono stati relegati in musei di storia sociale: la locomotiva a vapore, l’aratro, la catena di montaggio meccanica, la macchina per scrivere. Nell’era digitale, segnata dalla potente rivoluzione in grado di abbattere le barriere dello spazio e del tempo, in un eterno presente sempre connesso, quel “Proletari di tutto il mondo, unitevi”, concepito centosettanta anni fa, oggi sarebbe tecnicamente possibile con un banale click. Dall’Asia all’Africa, dall’Europa all’America, se miliardi di proletari riuscissero a connettersi tra di loro che cosa avrebbero da dirsi? Che nel mondo contemporaneo otto persone da sole detengono una ricchezza smisurata: 426 miliardi di dollari. Questa cifra è l’equivalente di ciò che deve spartirsi una metà della popolazione mondiale; cioè circa 3,5 miliardi di persone mettono insieme dollaro su dollaro quanto hanno accumulato otto loro consimili, geni della finanza, del commercio, dell’innovazione tecnologica, delle comunicazioni.
La concentrazione della ricchezza in poche mani contraddistingue il nuovo ordine mondiale, ma è fenomeno con radici nel secolo scorso. In meno di 40 anni, tra il 1975 e il 2012, circa il 47 per cento della crescita totale dei redditi ha premiato chi già era collocato tra i più ricchi, una minoranza dell’1 per cento della popolazione mondiale. Un dato, quest’ultimo, diffuso non da un giornale vetero-bolscevico né da un sito internet di movimenti no global; si tratta dell’analisi comparsa nel gennaio 2016 sul “Financial Times” in base all’elaborazione dei dati Ocse. La lotta di classe, dunque, non ha mai smesso – neanche nel nuovo millennio – di contrapporre privilegiati e svantaggiati. Ma si sta manifestando al contrario. Dall’alto verso il basso; ricchi sempre più ricchi contro poveri destinati a rimanere tali, mentre arretra il ceto medio.
La generazione dei baby boomer è cresciuta con la convinzione che democrazia e pace fossero valori acquisiti per sempre in Europa, ancor più con il consolidarsi delle istituzioni comunitarie e l’introduzione della valuta sovranazionale. Amara illusione. La casa comune si sta sgretolando sotto il peso della leggerezza delle risposte fornite ai drammi di questi anni sia dai singoli Stati che dalle istituzioni dell’Unione europea.
La globalizzazione si è trasformata in uno scardinamento delle classi sociali e delle faticose conquiste dei ceti produttivi. La sinistra – da Tony Blair a Bill Clinton fino alle nostre derivazioni nazionali - l’ha raccontata come un’opportunità per tutti mentre sotto i colpi di una crisi economica devastante la propria base sociale di riferimento impaurita dalle trasformazioni cercava protezione sociale altrove. Paura del declassamento, l’ha definita il Censis. La reazione è nel populismo, che ha occupato gli spazi lasciati maledettamente vuoti dalle culture politiche tradizionali. Lo schema storico destra/sinistra è saltato, sostituito dalla rappresentazione dello scontro di chi è dentro il sistema e di chi si sente escluso. Establishment/anti-establishment. O se vogliamo in mercatisti, sostenitori infatuati della globalizzazione senza regole, e in sovranisti, difensori di un’età dell’oro mai esistita.
Agendo sulla paura delle comunità, rivolgendosi alle solitudini individuali e collettive, contrapponendo un mitico popolo puro e vessato ai privilegi delle élite, il populismo insidia oggi le nostre sfibrate istituzioni di democrazia rappresentativa. Ogni fenomeno populista è diverso da nazione a nazione; non esistono infatti testi canonici di questa fenomenologia della politica, a differenza di quanto è accaduto per il marxismo, il liberalismo, il cattolicesimo democratico. La pratica tuttavia è molto simile: l'auspicio dell'uomo forte e risolutore dei problemi, delegittimazione dei corpi sociali intermedi, sovranismo e lotta alle istituzioni europee e internazionali, individuazione del "nemico" nello "straniero". Il “forgotten man”, l’uomo dimenticato, è la base elettorale di chi trasforma il disagio sociale e la disperazione economica in profitto di consensi e voti. Un tempo le forze della sinistra avrebbero sostenuto la cultura della complessità facendosi carico di indirizzare verso il cambiamento politico la sofferenza dei ceti più poveri. Oggi tocca ad altri trarne profitto nell'urna. Una storica sconfitta culturale, prima ancora che politica. —
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