«Chi era Sergio Endrigo, mio padre un artista poeta e gentiluomo»

“L’artista gentiluomo” è il sottotitolo scelto per la ristampa di “Sergio Endrigo, mio padre” e sintetizza perfettamente ciò che era il grande cantautore nato a Pola nel 1933 e venuto a mancare nel 2005 a Roma. Da allora la figlia Claudia si è votata alla conservazione della memoria artistica dell’adorato papà. «Sono l’ultima Endrigo e volevo lasciare una traccia», dice.
Dopo una prima versione (Feltrinelli, 2017) esce venerdì una riedizione per Baldini+Castoldi (pagg 564, 23 euro): «Ringrazio Elisabetta Sgarbi – dichiara l’autrice – che, innamorata del libro, ha fortemente voluto realizzare la nuova edizione ampliata».
In questo volume, molto più corposo, sono aggiunti tutti i testi delle canzoni scritte da Sergio Endrigo (che si possono leggere come poesie), c’è una prefazione di Francesco De Gregori, tante fotografie, una sezione che raccoglie ricordi di semplici fan e personaggi illustri (Renato Zero, Enrico Ruggeri, Veronica Pivetti, Enrico De Angelis, Sergio Cammariere…).
«La raccolta di tutti i testi credo sia una novità incredibile – prosegue la figlia di Endrigo – preciso che ho inserito solo quelli delle canzoni di cui erano sue le parole, tralasciando quelle di cui aveva scritto la musica come nel caso di “Te lo leggo negli occhi”, il cui testo era di Bardotti. Ci sono molte più foto e contenuti inediti, il più bello è forse quello che abbiamo inserito all’inizio “L’educazione di Boris Falaguna”: si tratta di una sorta di autobiografia romanzata che papà aveva cominciato a scrivere ma purtroppo, un po’ per la sua pigrizia proverbiale, un po’ perché ci vedeva poco e aveva difficoltà col computer, alla fine non ha più scritto, mi sembrava meraviglioso che il libro iniziasse con questo frammento, spiace davvero che non sia andato avanti perché scriveva benissimo. Sono fiera anche del capitolo che contiene le dediche che ho raccolto, sincere, non studiate, dimostrano che l’amore per papà è immutato».
«Io faccio un mestiere come un altro. C’è chi fa l’avvocato, chi l’imbianchino o il medico, io canto e questo voglio fare, non riempire i rotocalchi per avere più successo» affermava Sergio Endrigo, vincitore del festival di Sanremo nel 1968 con «Canzone per te», nel ’69 secondo con «Lontano dagli occhi» e terzo nel ’70 con «L’arca di Noè»; nel corso della sua carriera ha collaborato con scrittori e poeti come Gianni Rodari, Pier Paolo Pasolini, Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e musicisti come Toquinho, Luis Bacalov, Ennio Morricone. Dopo tanti successi internazionali, a metà anni ’80 iniziano i guai: album mal distribuiti e promossi e un serio problema di udito rendono difficile il suo percorso, anche se la stima di fan e colleghi non viene mai meno. Battiato, Ornella Vanoni, Mina, Massimo Ranieri, Simone Cristicchi, Morgan: la lista degli artisti che negli anni hanno riletto le sue canzoni è lunga. Nel 2001 il Premio Tenco è tutto dedicato a lui.
«Era una bella persona – ricorda la figlia –. Con tutti i suoi difetti. Profondamente buono. L’amore per il mare, dall’infanzia a Pola, gli rimarrà appiccicato tutta la vita. E me lo ha trasmesso». Endrigo fu costretto a lasciare la natia Pola, ma non visse l’esodo come un trauma: «Non l’aveva capito. Aveva 13 anni – prosegue Claudia – e gli adulti ne parlavano sottovoce. Ha avuto l’immensa fortuna di non finire in un campo profughi. È andato in un collegio per esuli e poi ha cominciato a lavorare. La consapevolezza della tragedia gli arriva solo molto dopo: la sua canzone “1947” è del 1969, la scrisse pensando più alla madre che a sé. Mia nonna aveva dovuto lasciare quel poco che aveva, furono sradicati dalla loro terra, dalla loro casa».
Nel libro non mancano alcune frasi in dialetto e “Trieste” è il titolo di una struggente canzone dell’album “…E noi amiamoci”: qui visse dai tre ai sei anni; ci tornò spesso, nel 1981 aveva anche partecipato a uno spettacolo della Contrada “Un sial per Carlotta”.
Tra aneddoti familiari, materiale d’archivio, stralci di lettere e recensioni, “Sergio Endrigo, mio padre” restituisce la grandezza discreta, su e giù dal palco, di un uomo che, per citare Bruno Lauzi, «aveva l’aria di volersi così poco bene che c’era tutto lo spazio per amarlo». —
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