Chi era Mileva Einstein il genio e la sofferenza della metà smarrita di Albert

LA RECENSIONE
È stata derisa perché zoppa e per aver voluto studiare all’Università anche se donna (la prima studentessa di Fisica al Politecnico di Zurigo), è stata disprezzata e ripudiata dalla madre di Albert, ha perso una figlia e una carriera e adesso lei ed Einstein non suonano più nulla insieme. Non Mozart né la poesia delle stelle, non le acrobazie dei numeri né il quotidiano condiviso del crescere due figli. Non abitano più la stessa casa e lui le scrive una lettera in cui le pone condizioni durissime e imprescindibili per continuare insieme. Condizioni che lei non può accettare. Mileva Marić coniugata Einstein (Ein-stein, una sola pietra, si dicevano quando il loro amore pareva intoccabile) incomincia la sua discesa nel dolore definitivo. E “Mileva Einstein” (Bottega Errante Edizioni, traduzione di Estera Miocic, 216 pagine, 17 euro) di Slavenka Drakulić porta in sottotitolo “Teoria sul dolore” ed è un sottotitolo che potrebbe accompagnare forse tutto il lavoro di questa autrice, che molto ha esplorato la complessità e l’ambiguità di ciò che ferisce il corpo e la mente. Il libro verrà presentato il 13 ottobre, alle 10.30, al teatro Pasolini di Cervignano, nella giornata conclusiva del Festival del Coraggio (11-13 ottobre).
Nata in Croazia nel 1949, laureata in filosofia e letterature comparate, fondatrice del primo gruppo femminista di Zagabria, oggi riconosciuta a livello internazionale come scrittrice, saggista, giornalista Drakulić è diventata nota per alcuni testi come “Come siamo sopravvissute al comunismo riuscendo persino a ridere” e “Balkan Express: frammenti dall’altra parte della guerra” che hanno proposto all’occidente una nuova visione di quanto accaduto nelle sue terre. In “Come se io non ci fossi” ha raccontato la storia di una donna bosniaca prigioniera e violentata durante la guerra nell’ex Jugoslavia, in “Non farebbero mai male ad una mosca” ha analizzato le personalità criminali di guerra sotto processo all’Aia, mentre in “Ologrammi di paura” c’è il suo percorso lungo una malattia che l’ha colpita a trent’anni e a cui è sopravvissuta grazie ad un trapianto di rene negli Stati Uniti. E proprio dei donatori anonimi raccoglie le testimonianze in “Carne della sua carne: alla ricerca della bontà”. Tra le donne al centro della sua ricerca e della sua riflessione anche gli ultimi giorni di Frida Kahlo, una che disse “La mia pittura porta il messaggio del dolore”.
Mileva, che forse ha lo zoppicare come destino, soffre e soffre di soffrire. «A volte mi inquieta - dice - quanto poco sappiamo del nostro universo interiore». Ma lei si interroga, dolorosamente si chiede quanto sia lei stessa artefice della sua disperazione. Quando il rapporto con Einstein incomincia a frantumarsi qualcuno dice di lei che è schizofrenica e d’altra parte la pazzia colpirà sua sorella Zorka e anche il suo secondo figlio che arriverà a tentare di strangolarla. Lei, che si sente preda della malinconia, di una sorta di “tubercolosi dell’anima”, è cosciente che la scienza di Einstein lo preserva dal dover capire le malattie psichiche. Così come da molto altro.
Lui prosegue gli studi che lei l’ha tanto aiutato ad avviare, raccoglie successi e finalmente ha l’approvazione della mamma per la nuova compagna Elsa, (per Mileva una testa vuota desiderosa di notorietà), che è più bella, è più ortodossamente femmina e ha anche il pregio di essere ebrea. Mileva passa anni a chiedere soldi per i suoi figli e a difenderne i diritti e intanto si sente in colpa con se stessa e con il padre, che ha voluto studiasse per compensare la diversità fisica. «Quando eri piccola - le dice lui, sempre tenerissimo - ballavi come un uccellino ferito». Ma anche: «Devi trovare un modo per dimostrare quanto vali». Mileva si sente in colpa per aver smarrito la propria autostima, si dice che il suo orgoglio è solo una maschera, si chiede se i figli non siano stati una scusa per sprecare l’opportunità di una laurea. Mileva si sente in colpa anche per non essere riuscita a rimanere quella che Albert amava. «Non c’è carta, caro Albert - gli scrive - che possa contenere il mio dolore». —
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