Chi era il Re triestino degli scacchi: una vita intera a studiare le mosse
TRIESTE In un suo libro del 1953 scrisse che la bellezza del gioco degli scacchi sta negli errori. Ne commise uno fondamentale anche lui, in una partita leggendaria a Dortmund vent’anni dopo, contro il campione sovietico Boris Spassky, su cui stava avendo la meglio. Chi era Enrico Paoli, il gentleman triestino degli scacchi? L’inserto Piccololibri, in edicola sabato primo maggio all’interno di Tuttolibri della Stampa, ne traccia un gustoso ritratto. Classe 1908, aveva fatto i primi esercizi nella latteria gestita dalla mamma, introdotto ai segreti delle mosse da un frequentatore del negozio.
Diploma, un passaggio sulle navi del Lloyd Triestino, poi la laurea in economia, la guerra e infine il trasferimento in Emilia Romagna dove, per avere più tempo da dedicare alla sua passione, decise di fare il maestro elementare. Ai successi nei tornei Paoli accompagnò un’importante attività saggistica con l’editore Mursia e i suoi manuali vendettero migliaia di copie. Scriveva anche su “L’Italia scacchistica”, dove, per mezzo secolo, tenne una rubrica sugli aspetti culturali del gioco, legandolo alla musica, all’arte, al cinema, alla letteratura. Ma come andò a finire il match con Spassky? I lettori lo scopriranno sul Piccololibri, che dà conto anche dell’unica previsione sbagliata del colto e arguto campione triestino a proposito delle sfide tra uomini e macchine. La sua carriera si concluse con l’ultimo torneo alla veneranda età di novantasei anni.
Il paginone centrale dello sfoglio è dedicato alle splendide immagini dei fratelli Gianni e Giuliano Borghesan, fotografi di Spilimbergo, il cui imponente archivio di tredicimila foto, comprese quelle del padre Angelo, che copre un arco temporale dal 1935 al 2019, è stato appena acquisito dal Craf, il Centro di ricerca e archiviazione della fotografia di Spilimbergo. Gianni e Giuliano, quest’ultimo emigrato nel 1958 in Marocco, dove proseguì l’arte di famiglia rilevando un importante studio di Casablanca, furono tra i protagonisti del Neorealismo fotografico, ovvero quello sguardo nuovo con cui il loro obiettivo coglieva e ritraeva l’umanità: i bambini, i lavoratori, le feste popolari, i paesaggi, i cambiamenti della società e le sue ferite. Questo taglio influenzò profondamente il cinema, come ebbe a dire, tre anni fa, il regista Martin Scorsese inaugurando una mostra a New York sul proprio lavoro. I soggetti, innanzitutto, quei bianchi e neri realistici, legati alla quotidianità, con implicazioni sociali e antropologiche, passarono dalla pellicola al grande schermo, quando non erano gli stessi registi, come Alberto Lattuada, Michelangelo Antonioni, Luigi Comencini e Francesco Maselli, ad avere un passato da fotografi.
Un altro ritratto dell’inserto racconta un autore da riscoprire, Fery Fölkel, in origine Ferruccio Fulkelstein, nato a Trieste nel 1921. Figlio di un ebreo viennese e di una triestina di origine slavo-tedesca, aveva scelto la versione ungherese del suo nome, mentre il cognome era l’adattamento ariano dell’originario askenazita. Il suo esordio poetico avviene tardi, a 57 anni, con “Monade. 33 poesie del Giudeo”, edito da Guanda, in cui, sul filo dell’ironia, coglieva e trasferiva nei versi l’identità israelita, tra riflessioni laiche sulla vita e la morte, memorie familiari, i contorni di una Trieste scomparsa. Originale anche il linguaggio, che, per un poliglotta come Fölkel, non poteva che essere un impasto di tedesco, triestino, sloveno, ebraico, ungherese, inglese, utilizzato in chiave critica nei confronti di certe letture nazionalistiche della storia della città e poco aperte verso il contributo della cultura e dell’imprenditoria slovena.
Nel libro “Die Tränen von Triest”, le lacrime di Trieste, non ancora tradotto in italiano, la scrittrice Beate Maxian racconta il senso di perdita vissuto dalle blasonate famiglie austriache trapiantate in città e costrette ad abbandonarla allo scoppio della Grande Guerra. Le prime pagine del romanzo di questa prolifica giornalista e autrice austriaca di origini bavaresi, che sul genere romanzo storico innesta love story e mistery, sono state scritte in un affascinante residence di San Giovanni, nella trama trasformato nella residenza di una delle famiglie protagoniste. Nell’intervista per Piccololibri, Maxian racconta la genesi della storia, i tanti viaggi a Trieste per documentarsi e i suoi luoghi del cuore.
Completano lo sfoglio i duecento anni della Napoleonica e un ricordo molto particolare di Milva, quando l’artista “rilesse”, modificò e interpretò una sua lettera all’amico Giorgio Strehler conservata nel fondo del Museo teatrale Schmidl. E scrisse con la voce e il cuore un’altra storia. —
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