Cercava in D’Annunzio amore e poesia Trovò solo sofferenze
«Ricordi cosa consigliava il prudente Saint-Beuve alle giovani donne? Non amate né i Voltaire, né i Goethe, né i Chateubriand... Se vi capitasse di incontrarli, fuggite tal genere d'uomini... La...

«Ricordi cosa consigliava il prudente Saint-Beuve alle giovani donne? Non amate né i Voltaire, né i Goethe, né i Chateubriand... Se vi capitasse di incontrarli, fuggite tal genere d'uomini... La gloria, come terza parte, non farà che rovinare la coppia». Così scriveva Maria Hardouin di Gallese (1864-1954) al marito Gabriele d'Annunzio nel 1889, citando una frase che ripeteva spesso sua madre. Si sarebbero separati l'anno dopo, perché Donna Maria non poteva più tollerarne i tradimenti e le innumerevoli amanti. Peraltro, l'unica certezza che poteva assicurarle l'allora riccioluto e affascinante autore de “Il Piacere” era la fame, l'indigenza e un cronico disinteresse per i figli. Dopo una romantica fuga in treno a Firenze, Maria e Gabriele si erano sposati giovanissimi nel 1883 a Roma, contro il volere del padre di lei, che la rinnegò, le tolse ogni sostentamento finanziario e si rifiutò per anni di incontrarla o conoscere i tre bambini nati di lì a breve: Mario, Gabriellino e Venier.
La separazione non migliorò il tenore di vita della duchessina, che con la madre e i figli, si dovette arrabattare per tutta la vita, chiedendo aiuto ad amici e parenti. Come dimostrano le sue lettere, chiedeva – senza successo - quanto dovutole anche al marito. D'Annunzio però aveva ormai adottato uno stile di vita che non avrebbe abbandonato fino alla morte: vivere nel lusso al di sopra delle proprie possibilità, contrarre enormi debiti, circondarsi di oggetti rari e preziosi, di donne da amare voluttuosamente, e di giovani uomini da sacrificare alla patria.
«Quando sposai mio marito», amava dire Maria Hardouin di Gallese, «mi illudevo di aver sposato la poesia. Avrei fatto meglio a comprare, per tre lire e mezzo, ognuno dei suoi libri di versi». Eppure la futura Principessa di Montenevoso, gli rimase sempre fedele, non pensò a risposarsi e fu la sua unica moglie, tanto che negli anni '20 i due chiesero addirittura l'annullamento della separazione. La vita di questa donna, bellissima, colta, coraggiosa e affascinante, è ora raccontata per la prima volta dalla giornalista Giuliana Vittoria Fantuz nel volume “Il peccato di maggio: Maria Hardouin di Gallese e Gabriele D'Annunzio (Ianieri Edizioni, Pescara, 2017, pp. 578, euro 23,90).
Il libro è frutto d'una imponente ricerca effettuata negli archivi del Vittoriale e nell'immensa corrispondenza intercorsa tra Maria e l'avanguardista poeta-soldato nel corso di quasi sessant'anni. Citando centinaia di missive, l'autrice permette al lettore di “ascoltare le voci” di Maria e Gabriele e di scoprire aspetti poco noti del poeta. Dalla lettura appare chiaro che i due erano legati da un rapporto complesso, fatto di complicità ed affetto, che si consolidò negli ultimi anni della vita del poeta, nonostante la micragnosità di D'Annunzio, che provvedeva saltuariamente alle esigenze di moglie e figli. Donna Maria conosceva le debolezze del marito, gli perdonava le amanti (eccetto Luisa Baccara) e gli procurava oggetti esotici a Roma o Parigi per l'arredamento delle sue alcove. Dal canto suo il Comandante di Fiume le destinò infine una villa nel complesso del Vittoriale. La Fantuz, nella sua evidente passione per la protagonista della biografia, rischia a volte di offrire una visione troppo agiografica di Maria Hardouin di Gallese. In contrapposizione a quel raro esemplare di megalomaniaco egoismo che era il marito, non solo dipinge la duchessina come una santa, ma la celebra con un anacronistico linguaggio decadente/simbolista.
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