«C’era anche un giornalista del Piccolo fra gli intellettuali prigionieri in Texas»
TRIESTE Lo hanno chiamato il campo di prigionia degli artisti e degli intellettuali. A Hereford, in Texas, tra i militari italiani catturati dagli angloamericani vi furono pittori come Alberto Burri, scrittori come Giuseppe Berto e giornalisti come Giosuè Ravaglioli. Quest’ultimo, romagnolo di Forlimpopoli, aveva lavorato al ‘Piccolo’ fino al 1938, quando in seguito all’introduzione delle leggi razziali venne estromesso dal giornale assieme al vecchio proprietario, Teodoro Mayer, e al direttore, l’antifascista Silvio Benco. Nel campo di Hereford furono rinchiusi anche due triestini, il tenente Ottone Sponza e il sottotenente Aldo Svara. La particolarità di questo campo di prigionia americano è che, tra il 1943 e il 1945, vi furono concentrati quegli ufficiali italiani che a vario titolo si rifiutarono di collaborare con gli alleati anche dopo l’armistizio del 1943, quando di fatto gli Usa non erano più nemici. Per anni di Camp Hereford si è saputo poco o nulla. Il merito di avere riportato l’attenzione intorno alla vicenda dei prigionieri non cooperatori è dello storico Flavio Giovanni Conti. Fu Renzo de Felice, di cui Conti è stato allievo, a suggerirgli di svolgere la tesi di laurea sui soldati italiani finiti nelle mani degli alleati. Nacque così ‘I prigionieri di guerra italiani’ pubblicato nel 1986, cui sono seguiti nel 2012 ‘I prigionieri italiani negli Usa’ e adesso “Hereford” (il Mulino, 452 pagg., 28 euro) in cui Conti si occupa dei prigionieri non cooperatori.
Perché questi ufficiali si rifiutarono di cooperare con gli Alleati e in cosa sarebbe consistita la cooperazione?
«Avrebbero dovuto fare dei lavori permessi dalla Convenzione di Ginevra, risponde Conti. Ma, dopo l’armistizio col quale l’Italia divenne cobelligerante, gli americani vollero che fossero impiegati anche in lavori connessi con le attività belliche. Per le conseguenze che questo poteva significare in Italia molti scelsero di non cooperare. Altri invece, comunisti, socialisti e repubblicani, non riconoscevano il governo Badoglio; poi c’erano, ed erano la maggioranza, i fascisti, che ritenevano gli americani dei nemici».
Motivo per cui Hereford si è tirato addosso la fama di campo fascista.
«L’etichetta è dovuta al primo libro su Hereford, ‘Fascists’ criminal camp’, scritto da Roberto Mieville, che al ritorno in Italia fu parlamentare del Msi, che contribuì a fondare. I reduci di destra si sono impossessati di questa etichetta, ma nel campo c’erano anche socialisti, repubblicani, comunisti e monarchici, tanto che non mancavano le risse tra le diverse fazioni».
Tra i comunisti c’era Giosuè Ravaglioli, che prima della guerra era stato un giornalista del ‘Piccolo’.
«Ravaglioli ebbe un ruolo importante nel campo, era il capo dei comunisti, che si definivano collettivisti. Si impegnò per far crescere tra i commilitoni la coscienza democratica. Di lui Giuseppe Berto scrisse che possedeva una cultura straordinaria, era intelligentissimo e dispotico. Al rientro in Italia diresse l’edizione di Bologna dell’Unità e poi fu espulso dal Pci perché giudicato troppo a sinistra».
Tra i tremila prigionieri che transitarono nel campo ci furono molti intellettuali. Nomi che poi hanno lasciato il segno.
«Alberto Burri era ufficiale medico e teneva corsi di dermatologia per gli altri militari. Cominciò a dipingere proprio a Hereford, ma tornò in Italia con un solo quadro, Texas, poi diventato famoso. C’erano anche Dino Gambetti, un altro pittore, Mario Medici, musicista e musicologo e Vincenzo Buonassisi, giornalista e gastronomo, noto anche per una rubrica con cui sarebbe apparso in tv negli anni Settanta nella trasmissione “L’almanacco del giorno dopo”».
E poi c’erano gli scrittori, Berto e Tumiati. Entrambi avrebbero poi vinto il premio Campiello.
«Giuseppe Berto, che era andato volontario in Africa, si considerava un liberal socialista. Scrisse il suo primo libro, “Il cielo è rosso”, a Hereford. Ogni sera leggeva qualche pagina ad alcuni amici, tra cui c’era Gaetano Tumiati, che dopo la guerra avrebbe fatto il giornalista all’Avanti e alla Stampa».
Scrittori, artisti, intellettuali, in un campo di prigionia non è un fatto eccezionale? A cosa fu dovuto?
«Ha contato molto il caso, ma fu determinante il fatto che quasi tutti erano ufficiali, cioè che avevano studiato e facevano già parte di una élite intellettuale». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo