Cent'anni fa nasceva lo stilista Missoni. La moglie Rosita: «Io e Tai insieme per destino: galeotta la giornata a Brighton. Andavamo spesso a Barcola»
«Trieste è una città fantastica. Mi è rimasta nel cuore. Vorrei tanto tornarci.... chissà. Vado per i 90 a novembre. Sono, come si dice, una spettatrice».
Rosita Jelmini Missoni si appresta a festeggiare il suo Ottavio, “Tai”, che oggi avrebbe compiuto cent’anni tondi.
Le sue ceneri sono nella casa paradiso di Sumirago in un vaso di ceramica a forma di gomitolo. «Non sarà solo un giorno. Sarà tutto un anno - anticipa Rosita Missoni -. A Venezia faremo una mostra a Ca’ Pesaro. Una retrospettiva. Tutti gli eventi, a partire dal compleanno, saranno “Ottavio e Rosita Missoni”. La nostra storia. La storia di una vita».
É previsto qualche evento a Trieste?
«Per il momento non abbiamo organizzato niente. Ma si può sempre fare. Vediamo se questo Covid molla. A me farebbe molto piacere».
Il vostro primo incontro fu olimpico. A Londra nel 1948...
«La prima volta che l’ho visto è stato allo Stadio di Wembley. Ero a Londra in un collegio per un corso estivo. Oltre ai musei era prevista anche una giornata alle Olimpiadi ed era il primo giorno della prima gara di Ottavio. L’ho notato per il numero che portava sulla canottiera azzurra, il 331, sommato fa 7. Il 7 è sempre stato il numero fortunato dei nonni materni. Erano tutti e due nati nel 1877. Mi nonno ci dava sempre 7 lire e 7 caramelle.
Un numero magico...
«Quando ho visto quel numero sulla maglia mi sono detta: “Vedrai che vince”. E infatti Ottavio ha vinto quel giorno la sua batteria dei 400 ostacoli».
È vero che galeotto fu un treno inglese?
«Alla fine dei giochi olimpici sono stata invitata a passare una giornata al mare a Brighton dal padre di una mia amica che era il presidente della Società Ginnastica Gallaratese, la squadra per cui gareggiava Ottavio. E sul treno per Brighton, a un certo punto, la mamma della mia amica mi dice: “Hai visto che bel ragazzo”. Ho alzato gli occhi e sono diventata di fuoco, tutta paonazza. Era Ottavio assieme alla medaglia d’argento Francesco Tosi. Ero una sedicenne timida».
Fu amore a prima vista.
«Solo che io avevo sedici anni e mezzo e lui ventisette. Pareva irraggiungibile. Mi sono resa conto subito della sua enorme simpatia».
E invece nel giorno del suo diciassettesimo compleanno si presentò con un preveggente biglietto d’auguri...
«Lo conservo ancora. C’è disegnata una cicogna del 1931 che porta un fagottino con la scritta: “Come è bella la vita, mia Rosita”. E poi c’è un ipotetico 2048 con una sfilza di figli e nipoti. Non potevo credere che era venuto alla mia festa di compleanno. Io compio gli anni il 20 novembre che, pensi un po’, è proprio Sant’Ottavio...».
Un altro segno del destino...
«Per i miei ottant’anni mi ha regalato un mazzo di fiori con il bigliettino: “Dal tuo sposo Sant’Ottavio”. Si santificava, capito».
Ma era davvero così pigro e indifferente alla moda come voleva far credere...
«Senza di me, lui la moda non l’avrebbe mai fatta. Non gliene poteva fregare di meno. Era naturalmente molto elegante di suo grazie al fisico».
Ma non aveva pure disegnato le divise della nazionale con cui aveva gareggiato a Londra?
«Ma quella era una cosa pratica. Aveva già fatto la società con Giorgio Oberwerger che era il commissario tecnico della nazionale di atletica. Con lui disegnò la tuta per la nazionale con tutte le comodità. Potevano indossarla senza neppure levarsi le scarpette chiodate. C’erano zip dappertutto».
Qual è il ricordo più bello che conserva di Trieste con “Tai”?
«Andavamo spesso a Barcola, Opicina, Prosecco. Abbiamo fatto diverse Barcolane. Il ricordo più bello restano però le vacanze a Grignano nell’alberghetto Mignon, sotto il castello di Miramare. Quando finivano le scuole portavamo lì i nostri bambini che si divertivano da matti a giocare sulle barche. E poi c’erano le gite in barca in Dalmazia con il suo Albano Albanese. Ho imparato così a pescare i dondoli (tartufi di mare, ndr). É diventata poi una mia passione».
Cucina sempre lo stinco alla triestina?
«Certo. Ho una mia ricetta segreta».
E quale sarebbe?
«Da noi c’è l’ossobuco. Io non capivo perché bisognare buttare via il midollo dello stinco. Così sono andata dal macellaio e gli chiesto di tagliare lo stinco come un ossobuco e poi di ricomporlo per cucinarlo come si fa a Trieste. Una cottura abbastanza lunga, semplice, con olio e rosmarino e pochi altri aromi. Senza l’aggiunta della gremolada (salsa di prezzemolo, aglio e limone, ndr) come si fa a Milano».
Uno stinco fatto a fette...
Era il piatto preferito di Ottavio.
Dicono che se la cavi benissimo anche con la jota...
«Certo. È una cosa che ho ereditato da Trieste. È ottima. E una minestra che facciamo spesso in casa». —
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