Cent’anni di Caporetto nel nuovo docu di Ferrario

TRIESTE «Qualche volta, ai Festival, può anche capitare di parlare di film che ancora non esistono». Con queste parole Fabrizio Grosoli, direttore artistico di Trieste Film Festival, ha introdotto il regista Davide Ferrario, in città per annunciare il progetto di un nuovo documentario che dovrebbe essere pronto nel 2017, nel centenario della storica disfatta di Caporetto.
Il titolo provvisorio è "Cent'anni di Caporetto" e sarà prodotto da Rossofuoco, società di produzione indipendente fondata dallo stesso regista assieme a Francesca Bocca, con Rai Cinema. Il regista ha cominciato proprio ieri, con il sostegno della Film Commission Fvg, i sopralluoghi per le riprese.
«Siamo ancora all'inizio del progetto e molte cose possono ancora cambiare - ha spiegato ieri Ferrario, durante un incontro al Caffè San Marco, in cui ha illustrato la sua idea -. Di sicuro ciò che voglio realizzare non è un documentario didattico o tradizionale. Vorrei piuttosto addentrarmi in questa "sindrome caporettiana" per provare a capire perché noi italiani abbiamo sempre bisogno di una catastrofe per poter risorgere. Quando ero studente mi sono chiesto come fosse possibile passare nell'arco di un solo anno da una disfatta del genere a un trionfo in piena regola. E questo è uno schema che nella nostra storia si è ripetuto più volte».
«Immagino un progetto schizofrenico - prosegue - diviso in quattro parti. La prima dedicata a Caporetto, la seconda a una storia di resistenza, la terza ambientata durante gli anni di piombo, in particolare sulla strage di Piazza della Loggia, infine un episodio che attraversi la storia e la geografia dell'Italia, da nord a sud, per parlare di una "Caporetto demografica».
Ferrario ribadisce che non intende intraprendere un tipo di lavoro tradizionale. «Sarà piuttosto il resoconto di un viaggio - aggiunge - un lavoro libero, visualmente poco conciliante, che metta in relazione Caporetto con i successivi cento anni di storia».
Per la prima parte il regista immagina di adottare lo schema consolidato del teatro civile con un narratore, forse Marco Paolini, che ci porterà nel Friuli contemporaneo raccontandolo, comprendendo il Vajont, Porzûs e Aviano. «Un poema visivo fatto di immagini e parole quasi in libertà», spiega ancora -. «Piazza della Loggia, invece, voglio descriverla attraverso i volti dei protagonisti sopravvissuti, parenti, mogli, figli, testimoni diretti. Nell'ultimo capitolo invece, parlano i numeri. È un dato di fatto che gli italiani, come tradizionalmente li intendiamo, fra sessant'anni saranno estinti. Ci saranno altri italiani, quella popolazione multietnica di cui tanto si parla, e non sto dicendo che questa sia una cosa giusta o sbagliata. Semplicemente constato che non facciamo abbastanza figli. E che il nostro, ormai, è un paese per vecchi».
Si girerà in Friuli Venezia Giulia, in Trentino e in Veneto, non solo nei luoghi della memoria ma anche nei centri commerciali, perché - dice Ferrario - «voglio sempre confrontare l'attualità con il passato». Ieri, intanto, i sopralluoghi lo hanno portato a visitare il Porto Vecchio, la Risiera di San Sabba e il Museo de Henriquez, mentre oggi e nei prossimi giorni la perlustrazione si sposterà in Friuli, nei luoghi colpiti dal terremoto del '76 (Gemona, Osoppo), Porzûs, le trincee del goriziano, il Vajont, la base militare di Aviano.
Intanto oggi il concorso della 27° edizione del Trieste Film Festival prosegue con due lungometraggi in gara. Il primo, "Corpse Collector", in programma alle 17.30 alla Sala Tripcovich, segna l'esordio del regista bulgaro Dimitar Dimitrov.
Una strana opera ibrida che si presenta come un noir, ma prende troppo presto la piega del dramma, indugiando a lungo nella poco convincente storia di un amore impossibile tra il protagonista Itzo, che di mestiere guida un'ambulanza che trasporta cadaveri all'obitorio, e Kathya, quarantenne dark lady con figlio a carico, amante di un improbabilissimo boss mafioso.
Dinamiche distorte di dominazione-sottomissione, traumi familiari non risolti e desiderio di vendetta per un giallo che purtroppo non comincia mai. Tutto molto goffo, maldestro, completamente fuori registro.
Va meglio con "Patria", alle 20, seconda parte di una trilogia sulla "generazione perduta" dei paesi della ex-Jugoslavia, ideata dal regista serbo Oleg Novkovic. «Patria indaga sulle estreme conseguenze della guerra civile e sulle possibilità di vita e di pentimento dopo le atrocità e i delitti commessi - scrive l'autore nelle note di regia -. Ma si occupa anche di tutti coloro che emigrarono in Serbia per sfuggire alle guerre civili degli anni '90 e che ora vivono nelle periferie povere della città, lasciati senza nessun tipo di aiuto ormai senza speranza».
Lo sguardo di Novkovic si sofferma su una famiglia numerosa, osservata nei loro rapporti fin dal prologo ambientato in Kosovo, prima del conflitto, e poi a Belgrado, dove la vita va avanti, nonostante tutto, anche se qualcosa, dentro di loro e tra di loro, si è spezzato per sempre.
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