Cent’anni di Cadorna l’autocrate in divisa che non capì la guerra
A un secolo dalla disfatta del 24 ottobre 1917 luci e ombre di un generale simbolo dei mali dell’Italia

General Luigi Cadorna (1850-1928) Italian army officer, Chief-of-staff of the Italian army at the outbreak of the First World War until his dismissal after the defeat of the Italians at Caporetto in October 1917.
Luigi Cadorna era forse il meno adatto a rivestire l’incarico di Capo di Stato maggiore del Regio esercito, ma probabilmente allora i vertici politici, più che militari, ritenevano che quella guerra scoppiata nell’estate del ’14 si sarebbe ben presto esaurita nel volgere dei mesi successivi, sicuramente entro la fine del 1915. Ma non era molto diverso da altri suoi colleghi, alleati e avversari. Cresciuti e formati nella diffidenza verso la democrazia e nel disprezzo per il mondo comune.
Certamente c’erano altri come il generale Luigi Zuccari, considerato il braccio di destro di Alberto Pollio, il Capo di Stato maggiore che allora esprimeva la più completa adesione alla Triplice alleanza e una smisurata ammirazione per gli ambienti militari germanici. Pollio era morto improvvisamente il 1° luglio 1914, proprio mentre la guerra stava scoppiando in Europa, risolvendo così un imbarazzante problema di relazioni. Il re Vittorio Emanuele III scelse Cadorna, che dava meno problemi di altri e il generale Zuccari fu destituito, proprio da Cadorna, dal comando della Terza armata solo tre giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria.
Luigi Cadorna poteva contare sul buon nome di suo padre Raffaele, l’espugnatore di Roma del 1870, unica vittoria sul campo del Regio esercito dopo le batoste del ’66 e quelle successive delle campagne coloniali. Quindi la sua nomina risultava ambiziosa anche se non scontata, visto che Giolitti lo aveva già scartato a favore di Pollio. Ci pensò Antonio Salandra a sistemarlo i vertici.
Cadorna è stato l’uomo degli appuntamenti mancati e delle occasioni perdute. Nato a Pallanza nel 1850 si era formato alla scuola militare “Teulié” di Milano e quindi all’accademia militare di Torino, nella tradizione sabauda di una casta militare tipicamente protesa alla carriera interna, agli incarichi di grande prestigio e poca sostanza. E per questi, Cadorna era pronto a fare di tutto, come altri suoi pari che con lo scoppio delLa guerra si trovarono, dall’oggi al domani, catapultati da una comoda poltrona di un ufficio studi o dell’istituto geografico militare a guidare decine di migliaia di uomini senza avere mai svolto alcun ciclo operativo, al più qualche breve periodo di comando reggimentale in caserma.
Il suo nome rimane indissolubilmente legato ai primi due anni della Grande guerra degli italiani ed anche se gli devono essere attribuiti due importanti successi sul campo, come l’arresto dell’offensiva austriaca sull’altopiano di Folgaria-Lavarone (maggio 1916) e le successive prese di Gorizia (agosto 1916) e dell’altopiano della Bainsizza (agosto 1917), la rotta di Caporetto è un rovescio che segnerà il destino d’Italia e pure il suo. Cadorna spenderà la sua esistenza prima in una folgorante carriera, poi con due anni al comando della più grande armata messa in campo dell’Italia, e infine, da Caporetto alla sua morte, a discolparsi e a cercare capri espiatori. I responsabili c’erano, come Alberto Cavaciocchi e Pietro Badoglio, rispettivamente comandante del IV Corpo d’armata e del XXVII Corpo d’armata.
Cadorna-Caporetto è un binomio che continua a far discutere e in infiamma il dibattito, sia pure all’interno del circoscritto mondo degli storici militari e degli studiosi della Prima guerra mondiale. Tuttavia c’è un rifiorire di riedizioni, di nuovi studi, di proposte provocatorie, come quella di Stefano Lucchini che ha invitato a rimuovere il nome del generale da vie e piazze italiane. Però ci si dimentica che il fronte trentino rimase inalterato (se pure lì ci fosse stata un’offensiva in stile Caporetto la situazione sarebbe stata drammatica) e che Cadorna radunò i resti delle armate dietro la linea del Piave consegnando al successore Diaz un sistema difensivo comunque saldo e reattivo. C’è la recente biografia di Marco Mondini (Il Capo), ci sono le carte inedite della commissione d’inchiesta su Caporetto analizzate da Luca Falsini. Ci sono pure le recenti polemiche a distanza tra Paolo Gaspari e Nicola Labanca sulla proverbiale sconfitta (per gli italiani) ma speculare ed opposta vittoria per gli austro-tedeschi, ma anche degli sloveni e croati con implicazioni non secondarie per le successive sorti politiche del confine orientale.
E poi c’è il consueto dibattito su una rivoluzione possibile in Italia, soprattutto dopo quella russa del febbraio del ’17. Se la sconfitta di Caporetto fosse un prodromo rivoluzionario, la miccia di una rivoluzione, probabilmente la vettura con Cadorna e il re, incrociata dalle colonne in ritirata sarebbe finita rovesciata in un fosso e i due illustri occupanti appesi al più vicino albero. Invece tutto ciò non accadde, come volle ricordare lo storico militare Antonio Sema. Anzi, Cadorna e il re furono salutati con deferenza e rispetto. In Russia una cosa del genere non sarebbe successa. E penso nemmeno sul fronte francese. In Italia non c’era alcuno spirito rivoluzionario in grado di fermare quella macchina che ospitava i vertici dello Stato e dell’esercito e di sfruttare il rovescio di una guerra. Invece accadde l’opposto: alla malasorte, magari bestemmiando, ci fu una reazione istintiva e salvifica di quei soldati.
Va osservato che Caporetto fu una vittoria preparata per tempo e perseguita a regola d’arte, dell’arte della guerra s’intende. Lo aveva detto vent’anni fa il citato Antonio Sema quando aveva inquadrato quella battaglia all’interno di una più sofistica “guerra speciale” attuata dagli austriaci con l’utilizzo di forze non convenzionali (infiltrati, spie, atti di sabotaggio), rafforzate da una decisiva motivazione etnico-nazionale soprattutto tra i soldati slavi del Litorale, e con l’ausilio decisivo di truppe tedesche altamente specializzate in azioni fulminee di sorpresa e neutralizzazione dei sistemi difensivi avversari, azioni già sperimentate sul fronte europeo orientale. Tutti fatti, combinati tra loro, che non furono assolutamente previsti e nemmeno lontanamente immaginati dal Comando supremo italiano che allora conduceva la guerra secondo canoni assai più tradizionali e comunque conformi alle dottrine militari allora in voga.
L’applicazione pedissequa delle famigerate norme del colonnello Giuseppe Pennella sull’uso reiterato degli assalti frontali di massa e la circolare 191 sull’obbligo dell’obbedienza assoluta, determineranno il giudizio morale prima che storico su un Cadorna inchiodato alle sue responsabilità. Per quanto Luigi Cadorna dimostrasse freddezza e distacco per la politica, in verità perseguiva egli stesso un suo fine politico, da autocrate: rifare gli italiani imponendo la più ferrea disciplina. Diventerà una vera fissazione vedere ovunque forme di indisciplina attribuite all’individualismo, al mancato dovere patriottico, alle ideologie socialiste e anarchiche. Se la nazione era indisciplinata, anche l’esercito lo era come parte di essa, per cui bisognava raddrizzarle la schiena. E se non bastava bisognava fornire l’esempio di disciplina, anche con le fucilazioni. Invece, nel caso italiano, i veri problemi risiedevano nella vetustà ed inefficacia dei materiali e nella carenza di personale effettivamente preparato e motivato. Caporetto lo avrebbe dimostrato. Il vero problema risiedeva pure in un Regio esercito depresso nello spirito, nel personale sottopagato e privo di prestigio sociale, spesso strumento dell’avventurismo della politica italiana, come fu la guerra italo-turca del 1911. Fondamentalmente ossessionato dal recente passato inglorioso.
Ma per meglio comprendere la mentalità di Cadorna si deve avere ben presente che i Capi di Stato maggiore degli eserciti impiegati allo scoppio della Grande guerra provenivano da una carriera per lo più interna agli ambienti teorici e dottrinali degli eserciti, chiusi e indifferenti al mondo esterno, comunemente incapaci di cogliere le trasformazioni in atto nel mondo industriale e nella società. Cadorna non aveva una mentalità molto diversa dai suoi colleghi, alleati ed avversari, che interpretavano la guerra in una chiave “fordiana”, della massa. Ma è l’unico dato di modernità traslato dalla produzione industriale al campo di battaglia: vince chi avrà più uomini ancora in piedi, per cui si trattava soltanto di rincalzare i paurosi vuoti con altri uomini, giovanissimi o padri di famiglia poco importa. Era importante, soprattutto, il successo ad ogni costo.
Ciò risiedeva principalmente nella logica che contrassegnava le gerarchie del potere militare degli Stati maggiori dell’epoca: una lobby “aristocratica” fondata su stretti rapporti e relazioni, anche familiari, in cui circolavano, come per tutti i professionisti, idee e condivisioni. Il disprezzo verso la massa, la diffidenza per i subalterni, lo scetticismo per la politica, la scarsa conoscenza per l’evoluzione tecnologica erano tratti comuni. In ciò Luigi Cadorna non si distingueva affatto: era un autocrate in uniforme.
Tuttavia, a differenza di altri suoi colleghi sistematicamente lontani dal fronte, Cadorna visitò le trincee e si portò a ridosso della prima linea. “Vivono addirittura nel fango…” scrisse. Un’osservazione più da visitatore che da militare. Aveva l’ossessione delle perdite umane, nel senso fordiano però, che imputava regolarmente all’imperizia dei comandanti subalterni e non a quell’abisso scavato tra il formalismo degli alti comandi e la guerra reale.
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